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Tito di Gormenghast
Apriamo questo libro e ci troviamo in un mondo parallelo al nostro. È Gormenghast, un immane castello, che nessuno dei suoi abitatori ha percorso in tutti i suoi anfratti. Un tempo, doveva essere pieno di tinte squillanti: ora è un intreccio di crepe, e le tinte sfumano fra grigio, verde lichene, rosa antico e argento. Vi incontriamo esseri disparati: un nobile melanconico e saturnino, settantaseiesimo conte di Gormenghast, che è il reggitore del luogo; sua moglie, avvolta in una nube di gatti bianchi; la figlia, selvatica e sognante fra giocattoli vecchi, libri e pezze di stoffa; dignitari di cartapecora, dalle gambe di ragno, custodi di un ordine ormai inaridito; orripilanti figuri che sovraintendono alle cucine; giovani acrimoniosi, che covano la rivolta. Ma cè qualcosa che unisce questi personaggi: il loro corpo e la loro psiche sono una concrezione del castello così come il castello è una concrezione del loro essere. Nessuna vita è per loro concepibile al di fuori di quei corridoi di pietra, di quei saloni, di quelle torri, di quei solai. La natura non esiste, se non come riflesso del castello, dove la polvere è polline: perché Gormenghast è tutto. La nascita di un erede maschio, Tito di Gormenghast, «rampollo della stirpe delle pietre, acqua del fiume senza fine», porterà una minaccia di cambiamento, per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo. E qui ha inizio la trascinante saga narrata da Peake, unimpresa grandiosa della letteratura fantastica e insieme un vasto disegno allegorico che traspare dietro lesuberanza delle immagini. Tito di Gormenghast fu pubblicato nel 1946, primo volume di una trilogia che sarebbe stata compiuta nel 1959. Il libro trovò, fin dallinizio, lettori entusiasti, ma un po come accadde a Tolkien per molti anni essi rimasero una piccola cerchia. La morte di Peake, nel 1968, coincise invece con linizio di una grande voga fra lettori di ogni specie. Accolta fra i «classici moderni» della Penguin, la trilogia di Peake è ormai unopera amata in tutto il mondo. Come scrisse C.S. Lewis, «Peake ha creato una nuova categoria, il Gormenghastly, e già ci meravigliamo di come prima potessimo vivere senza di essa e ci chiediamo come mai nessuno aveva saputo definirla prima di lui». -
La parola dipinta
Questo libro può essere considerato la prima trattazione organica del tema della poesia figurata in tutte le sue molteplici accezioni, che vanno dai technopaegnia alessandrini ai calligrammi di Apollinaire, poi ripresi e sviluppati dalle avanguardie. Mentre gli studi precedenti si erano spesso appagati di un’analisi innanzitutto visiva di questa forma di poesia, Pozzi mira a risalire all’origine di quell’impulso formale, qui individuata nella tensione dell’espressione linguistica quando essa si sottomette a un regime che le è estraneo, quello dell’espressione iconica. Questa tensione non è presente solo negli artifici più noti – quali il calligramma, l’anagramma e l’acrostico –, ma in numerosi altri testi dove il valore iconico è per così dire occultato. E il disvelamento di queste immagini segrete viene qui condotto da Pozzi con appassionante perizia.rnAlla prospettiva sincronica, che tende a illuminare le sottili questioni formali poste da questa specie della poesia, si accompagna – nella seconda parte dell’opera – una storia della poesia figurata in Italia dal Medioevo in avanti: vi si vedranno sfilare i grandi nomi di Boccaccio, Boiardo, Folengo, Colonna e una folla di autori sconosciuti, soprattutto cinquecenteschi e secenteschi, che spingono la poesia figurata a estremi di virtuosismo e di eleganza.rnMolti di questi materiali vengono qui sottratti per la prima volta al sonno delle biblioteche, portando alla luce immagini delicate, sorprendenti. Un senso di vertigine è la cifra di queste invenzioni, oscillanti fra l’esaltazione mistica e la perversione contaminatrice. La scrittura, ribellandosi alla sua funzione di rappresentanza linguistica, tende a diventare, da ancella della lingua, sua arrogante despota: «una storia della scrittura come regno dell’eccesso vedrebbe figurare il nostro genere fra i più inquietanti», annota Pozzi. L’evoluzione formale della poesia figurata si intreccia così a quel radicale spostamento dell’asse intellettuale che si manifesta all’inizio dell’età moderna. I carmi figurati, che negli esempi medievali si aggiungevano al Liber mundi come un’ulteriore pagina di lode cosmica, tendono sempre più a diventare una celebrazione del disordine e del sovvertimento, segnali dell’assenza della divinità dal mondo, annuncio di un irredimibile caos. -
Quaderni. Vol. 1
I Quaderni di Simone Weil cominciano oggi ad apparirci per ciò che sono: un’opera unica e solitaria, senza ascendenze, senza discendenze, un cristallo perfetto composto di molteplici cristalli. Simone Weil riempì sedici grossi quaderni fra l’inizio del 1941 e l’ottobre 1942: aveva poco più di trent’anni, la guerra era nel suo momento più cupo, la vita la trascinava, come tanti rifugiati, fra Marsiglia, gli Stati Uniti, Londra, dove sarebbe morta nel 1943, dopo aver tentato in ogni modo di farsi paracadutare dietro le linee tedesche. Con prodigiosa intensità, trasmettendoci quasi il pulsare del pensiero stesso nel momento in cui si fissa, Simone Weil annotò in quel periodo questa «massa non ordinata di frammenti»: tutti i temi delle sue riflessioni precedenti, che erano state soprattutto filosofiche e sociali, vi riappaiono e alcune decisive scoperte sono qui testimoniate, come la lettura dei grandi testi sanscriti, fatta con René Daumal. Ma ciò che subito colpisce è l’invisibile presupposto che irraggia la sua luce su queste pagine. Qui, più che mai prima in lei, parla un pensiero trasparente e durissimo, caparbiamente concentrato su un esile fascio di parole che la Weil incontrava interrogando pochi testi inesauribili (le Upanisad, la Bhagavad Gita, i Presocratici, Platone, Sofocle, i Vangeli, san Paolo): amore, forza, necessità, equilibrio, bene, desiderio, sventura, bellezza, limite, sacrificio, vuoto. Nulla come il contatto con queste parole può rendere evidente la miseria della filosofia, della scienza, della religione, della politica abbandonate al loro karman occidentale. Mentre proprio dinanzi a queste parole si accende il pensiero della Weil, che è l’esperienza stessa di «agganciare il proprio desiderio all’asse dei poli». La Weil sapeva perfettamente che quelle parole sono altrettante ordalie, perché fanno traversare il fuoco a chi le pronuncia. Chi può pronunciarle, in quanto sa a che cosa esse si riferiscono, ne esce illeso. Ma quasi nessuno ne esce illeso. Nella bocca di quasi tutti quelle parole sono carcasse deformi. Sotto la penna di Simone Weil tornano a essere cristalli misteriosi. Per osservare quei cristalli con attenzione – e l’attenzione è appunto la suprema virtù praticata dalla Weil, quella che riassume in sé tutte le altre – bisogna essere almeno un matematico dell’anima: Simone Weil lo era. -
Il mercante di coralli
Fra i grandi scrittori del nostro secolo, Joseph Roth è quello che più pervicacemente ha saputo tener fede alla figura del narratore. Raccontare storie disparate, intesserle, farle risuonare l’una con l’altra, fare dei propri racconti «una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini»: questo è il sogno che Roth perseguì in tutta la sua vita di scrittore. E lo riconosciamo subito leggendo i suoi racconti riuniti in questo volume, narrazioni sparse nell’arco di più di vent’anni, chiuse alcune nella misura essenziale dell’apologo, dove avvertiamo ogni volta di muoverci all’interno di un unico, ma quanto vasto e variegato mondo.rnDalla febbrile aura espressionista dello Specchio cieco alla pura gioia del nominare, in Aprile, alla snebbiata lucidità mondana del Trionfo della bellezza, sino alla scansione da epos chassidico del Leviatano: molte sono le vie che Roth tenta in questi racconti, e più di una volta si può dire che esse conducano alla terra della perfezione, come nel caso almeno del Capostazione Fallmerayer, della Leggenda del santo bevitore e del Leviatano. Ma, percorrendo di seguito queste pagine, più ancora della compiutezza del singolo testo colpisce la comune linfa che circola in ogni pagina, quasi la continuità fra tutte le storie. Come i coralli per il «mercante di coralli» Nissen Piczenik, protagonista del Leviatano e immagine testamentaria di Roth stesso, qui le singole storie sono di per sé oggetto di un amore inesauribile, vengono osservate e carezzate nella sconcertante varietà delle loro forme, perché tutte ugualmente provengono, tutte sono state nutrite dalle acque profonde, là dove gli oceani comunicano con le paludi dell’Europa centrale. E Roth allora ci appare come il «mercante di coralli» che ogni volta attinge dalla fluidità originaria una storia e la adagia sul tappeto della sua prosa, come uno di quegli esseri nomadi da lui prediletti, che traversavano in ogni direzione, con i loro lievi tesori, l’«unica possibile patria per i senzapatria», l’Impero, prima di scegliere un definitivo esilio. -
Auto da fé
E' l'unico romanzo di Elias Canetti, un'opera solitaria ed estrema, segnata dall'intransigente felicità degli inizi. Qui tutto si svolge nella tensione fra due esseri cresciuti ai capi opposti nell'immenso albero della vita: il sinologo Kien e la sua governante Therese. Questo romanzo aspro, spigoloso, è attraversato da una lacerante comicità, unica lingua franca in cui possa comunicarsi questa storia, prima di culminare nel riso di Kien, mentre viene avvolto dalle fiamme, nel rogo della sua biblioteca. -
Architettura di vetro
L’Architettura di vetro è un sogno che apparve nel 1914 sotto forma di breve trattato architettonico, fissato in tutti i suoi particolari con una minuzia artigianale che esalta ancor più il carattere di inattingibile fantasmagoria del tutto. Queste pagine segnano la fine della civiltà dell’intérieur borghese, fatta di schermi tra un fuori e un dentro, pesanti tendaggi, ombre, nascondigli – e insieme celebrano il passaggio alla nuova «civiltà del vetro», materiale che, nelle parole di Walter Benjamin, cancella ogni «aura», è «il nemico del segreto» e impone la trasparenza. Ma nulla sarebbe più sviante che intendere questo testo di Scheerbart come manifesto di quella funzionalità aziendale, tra vetro e cemento, che da allora ha invaso il mondo ed è ormai senescente. Tutt’altra è la visione che ci trasmette «l’esperanto astrale» di Scheerbart: quella di un incontro erotico fra la natura e la tecnica, che riveste la terra intera di una patina di luce smaltata, da giardino orientale. «Cittadino onorario degli stati uniti della luna» (Ehrenstein), Scheerbart passò nella Germania guglielmina come un turista cosmico, un ibrido fra Jean Paul e Fourier, fra Jarry e Jules Verne. In lui, nelle sue narrazioni e divagazioni fantastiche, Walter Benjamin e qualche altro appassionato lettore riconobbero subito un irridente, candido visionario, che con «serenità dolcemente stupita» mette a confronto la realtà terrestre con le «strane leggi naturali degli altri mondi», fra le quali si trova tanto più a suo agio, e così aiuta anche noi a guardare il nostro pianeta «sotto altra luce». -
La mela d'oro e altri racconti
Quando nel 1893 Hofmannsthal scrisse il racconto Giustizia, primo di questa raccolta, aveva diciannove anni: il suo stile era già perfetto, una prosa quasi condannata alla maturità e alla limpidezza, dove risalta ogni minima crepa come in certe mirabili tazze giapponesi che così vengono fatte perché la loro bellezza sia più naturale. In quel racconto appare un angelo, «uno degli snelli paggi di Dio», e chiede al govane autore, traendo il suo stiletto dal fodero: «Sei un giusto?». E, allinadeguata risposta, ribatte: «Giustizia è tutto, giustizia è la prima cosa, giustizia è lultima». Si può dire che tutta lopera di Hofmannsthal sia stata una risposta alla domanda dellangelo: la sua vertiginosa precisione estetica accenna sempre a quella «giustizia» come alla sua origine, secondo le parole di Gregorio di Nissa che Hofmannsthal pose a motto dellintera sua opera: «Egli, lamatore della suprema bellezza, ritenendo ciò che aveva visto quasi unimmagine di ciò che non aveva visto ancora, aspirava a goderne loriginale medesimo». È questo il sottinteso che vibra in tutti i racconti qui riuniti, scritti fra il 1893 e il 1913 e in parte pubblicati postumi. Hofmannsthal raggiunge in queste pagine alcuni vertici della sua arte, per esempio nella Mela doro, che dà il titolo al volume e che pure è rimasto incompiuto, come lAndrea, quasi che Hofmannsthal si rifiutasse di appagarsi di ciò a cui il suo genio naturalmente lo inclinava: chiudere la perfezione in una figura. -
Pensieri
I Pensieri di Leopardi apparvero postumi nel 1845, ma erano stati scelti e ordinati da lui stesso; ad essi accenna in una lettera, poco prima della morte, come a un «volume inedito di Pensieri sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta in Società». Molti di questi frammenti li aveva estratti dal vasto laboratorio dello Zibaldone, altri erano del tutto nuovi. Rispetto alle prime stesure zibaldoniane, intime e immediate, questi Pensieri furono sottoposti a un lavoro di sottile rifinitura stilistica, che fa loro assumere un crudele nitore, come di epigrafi incise sotto il mobile teatro della vita. Si avverte in queste pagine, scrisse Sergio Solmi, un certo carattere di «glacialità», e insieme di puntigliosa precisione nello svelare i meccanismi nei rapporti sociali e nella mente degli uomini, questi esseri «miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente». Accanto al grande lirico della desolazione e della favolosa infanzia, c’era in Leopardi un La Bruyère avvolto da un’aura gnostica, e mai lo vediamo parlare con tanta lucidità come in queste annotazioni. -
La persuasione e la retorica
Carlo Michelstaedter traversò la vita con incauta rapidità: prese a pretesto una tesi di laurea per dare voce a una sua desolata certezza: stabilì, all’interno del suo ragionare, un filo tra Parmenide e una corrosiva critica della società che lo circondava: infine, nell’ottobre 1910, a ventitré anni, si uccise con un colpo di rivoltella. Percorso che ricorda quello di Otto Weininger, per l’intensità rovente dell’esperienza, per la tematica, per gli anni in cui si svolge. La persuasione e la rettorica doveva essere la tesi di laurea di un brillante studente goriziano a Firenze su questi due concetti in Platone e Aristotele. Divenne un testo anche formalmente inclassificabile, dove le due parole del titolo assumono significati del tutto peculiari. «Persuasione» è il tentativo, sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di se stessi: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita». «Rettorica» è l’apparato di parole, di gesti, di istituzioni, con cui viene occultata l’impossibilità di giungere alla «persuasione». Isolato nell’Italia del suo tempo, fedele all’ombra di Schopenhauer, Michelstaedter raggiunse in questo suo scritto la concentrazione vibrante che è data ai grandi precoci: «Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente». -
In Patagonia
«Patagonia» dicevano Coleridge e Melville, per significare qualcosa di estremo. «Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza» cantava Cendrars agli inizi di questo secolo. Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, fra cui l’autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare. Scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin, non già per salvarsi da una catastrofe, ma sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente navigatore. Li trovò entrambi – e insieme scoprì ancora una volta l’incanto del viaggiare, quell’incanto che è così facile disperdere, da quando ogni luogo del mondo è innanzitutto il pretesto per un inclusive tour. Eppure, eccolo di nuovo: l’inesauribile richiamo, il vagabondo trasalire di un’ombra – il viaggiatore – fra scene sempre mutevoli. E nulla si rivelerà così mutevole come la Patagonia, che si presenta come un deserto: «nessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca». All’interno di questa natura, che ha l’astrattezza e l’irrealtà di ciò che è troppo reale, da sempre disabituata all’uomo, Chatwin incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare. Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio. Qui i coloni gallesi versano il tè fra i ninnoli; qui circolano folli, che si trasmettono il titolo di re degli Araucani o coltivano la memoria di Luigi II di Baviera; qui si incontrano ancora elusivi ricordi di Butch Cassidy e Sundance Kid; qui si respira l’aria dei grandi naufragi; qui esuli boeri, lituani, scozzesi, russi, tedeschi vaneggiano sulle loro patrie perdute; qui Darwin incontrò aborigeni dal linguaggio sottile, e li trovò così «abietti» da dubitare che appartenessero alla sua stessa specie; qui si contemplano unicorni dipinti nelle caverne; qui sopravvive qualcuno che vuol far dimenticare un atroce passato. Come un nuovo W.H. Hudson, devoto solo al «dio dei viandanti», Chatwin ci racconta le sue molte tappe: fra baracche di lamiera, assurdi chalets, finti castelli, vaste fattorie. E ogni tappa è una miniatura di romanzo. Alla fine, la Patagonia sarà per noi pullulante di fantasmi, che si muovono sul fondo della «calma primitiva» del deserto, nella quale Hudson credeva di riconoscere «forse la stessa cosa della Pace di Dio». Pubblicato nel 1977 come opera prima, questo libro appartiene alla specie, oggi rarissima, dei libri che provocano una sorta di innamoramento. La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il bisogno. -
Case minime. Romanzo
Il mondo delle «case minime», dove ci muoviamo nelle pagine di questo romanzo, è segnato da un doloroso grottesco, da una «miseria metafisica» che penetra nelle ossa, dai sottili grovigli di una comicità nera. Maxim, il protagonista, è un piccolo funzionario e una piccola vittima nel grande Teatro dellAssistenza. Come funzionario, dovrebbe per mestiere assistere gli altri, nella città colpita da una pigra, ma crudele epidemia. Come vittima, il Comune gli ha assegnato appunto una «casa minima», dove non solo i suoi sogni sempre più pressanti ma il suo respiro non riescono a trovare spazio. LAssistenza, infatti, è la forma più attuale di punizione della vita. Con agile noncuranza, Vigevani ci fa seguire gli itinerari di Maxim: dalla fetida angustia delle case minime alla città, che tende a somigliare a un ospedale diffuso, sino allospedale vero, che diventa ora il luogo degli intrattenimenti: si organizzano concerti e animazioni dellavvilimento. La psiche di Maxim si disegna con pochi tratti, labilmente, su questo sfondo: allinizio, appena «per un attimo si era sentito libero e subito era sopraggiunto il terrore». Poi, con tortuosi tentativi, Maxim comincia a vagare nella memoria. A poco a poco, raccoglierà oscuramente le forze per evadere, sino a incontrare un salutare esilio. Con il suo segno di matita sottile e preciso, con il suo dono nellisolare ogni dettaglio della comicità più desolante, Vigevani ha tracciato il ritratto di un mondo sempre più invadente, che non aveva trovato ancora il suo cantore. -
Il barone Bagge
Fra crateri spenti, nebbie e pantani gelati, uno squadrone della cavalleria austriaca si addentra nell’ignoto. Sono centoventi uomini, vestiti e armati nello stile di un tempo ormai lontano, «come una schiera di fantasmi a cavallo» sperduti sul fronte orientale della prima guerra mondiale. Seguendo il loro scalpitare, varchiamo la soglia di un regno intermedio che è insieme dei vivi e dei morti, del sogno e della veglia perfetta. Di quel regno, in tutta la sua opera, Lernet-Holenia è stato un magistrale cronista. «I racconti più perfetti sono quelli che, pur potendo pretendere al massimo della verosimiglianza, raggiungono il grado supremo dell’irrealtà» egli scrisse una volta. Il barone Bagge, pubblicato per la prima volta nel 1936, applica questo proposito con precisione abbagliante – e al tempo stesso dimostra che lo si può rovesciare: perché qui ciò che più è irreale ha il massimo della verosimiglianza. Solo alla fine scopriremo che questo racconto, oltre che una delle ultime cronache della cavalleria, è un archetipo, una sfaccettatura intatta nella pietra di Amore e Morte. -
Palchetti romani
In questo volume sono per la prima volta raccolte tutte le cronache teatrali che Savinio scrisse per il settimanale «Omnibus», diretto da Leo Longanesi, fra il 1937 e il 1939. In quel periodo sfilarono dinanzi al suo occhio di spettatore non complice tutte le glorie e le miserie del teatro italiano, dai testi rutilanti del «bardo» D’Annunzio (e del «bardo in seconda» Sem Benelli) alle «freddure» del varietà, dai Giganti della montagna di Pirandello a Villafranca di Giovacchino Forzano, inframezzati dalle obbligatorie pochades, dai Rostand, dagli Shaw, dai Rattigan, dai Bernstein, oltre che da qualche Plauto, Shakespeare e Lope de Vega. Quanto agli attori, andavano dal vegliardo Ermete Zacconi all’esordiente Anna Magnani, e fra l’uno e l’altra – oltre all’aleggiante ricordo della Duse – troviamo davvero tutti: da Benassi alla Morelli, da Ricci alla Pagnani, da Dina Galli ai De Filippo, dalla Gramatica alla Melato, da Macario a Tòfano. Savinio fu un grande spettatore e testimone di quel teatro innanzitutto perché andava a vederlo malvolentieri. Per una sua vasta parte, il teatro è l’involontario e momentaneo mettersi in scena di una civiltà: e Savinio sentiva acutamente il tanfetto stantio, l’orrenda «sanità» di gran parte della civiltà italiana in quegli anni. I nostri più celebri attori gli apparivano, quasi tutti, fatalmente «pensosi», inabili dunque alla «frivolità», da lui definita «la qualità di più difficile acquisto», che «non viene se non alla sera di una lunga giornata di fatica». Di quella «frivolità» sono invece esempio supremo queste cronache: impaziente, esilarante, perfido, Savinio procede per accostamenti fulminei, presentati ogni volta come fossero ovvi: così, grazie a lui, capiamo il profondo legame fra Ermete Zacconi e Shirley Temple; o la «stretta affinità fra la recitazione di Benassi e le decorazioni di ferro battuto che adornano le porte del teatro Eliseo» (non ancora ristrutturato); o il nesso fra il «grande stile» di Ruggero Ruggeri e «quello delle coppe con le quali erano premiati i vincitori dei concorsi ippici intorno al 1900». Ma l’ironia non faceva velo, in Savinio, all’equità, che gli permetteva di individuare con chiaroveggenza le peculiarità dei vari talenti. Quanto ai testi, per uno spettatore come Savinio, che vedeva nel Racconto d’inverno di Shakespeare il suo ideale «spettacolo di varietà», era una soave tortura ascendere all’Alta montagna di Salvator Gotta. Ma al senso di sorda oppressione che spesso emanava dalla scena Savinio poneva rimedio guardandosi intorno, distraendosi, divagando, con quella sua felice infedeltà alle forme che gli permetteva di «passare da una all’altra come una volta, di posta in posta, si cambiavano i cavalli». Allora poteva rivelarglisi la visione di gran lunga più grandiosa: il pubblico. Nessuno degli spettacoli di quegli anni ha la maestosa, greve intensità del pubblico di una serata di Govi, quale Savinio, cronista visionario, ci ha descritto: «Sembrava un’assemblea di divinità egizie, metà uomini e metà animali. Fronti aggrottate sulle quali calava una capigliatura fitta come il muschio, occhi acquosi e invasi dalle palpebre, mani enormi posate sulle ginocchia come costate di manzo sul marmo del macellaio, spalle a... -
Storie del mio zoo
Molti bambini, intorno ai sei anni, sognano di dedicarsi da grandi ai più disparati mestieri: il poliziotto, il macchinista, il pompiere. Gerald Durrell sognava di avere uno zoo. Con tenacia, rimase fedele al suo desiderio, finché riuscì ad aprire davvero, nell’isola di Jersey, un suo zoo, che è tuttora in funzione e si pone come primo obiettivo quello di contribuire a salvare le specie in pericolo. Per Durrell lo zoo è così diventato una forma di vita: per lui significa svegliarsi all’alba alle voci degli svariati animali, che egli riconosce una per una, e poi passare la giornata affrontando i più umili e bizzarri problemi, trattando gli animali come propri conviventi, in un rapporto di felice intimità, che Durrell riesce a trasmetterci in tutti i suoi libri, e particolarmente in questo, che alla storia del suo zoo è dedicato. Le risse del trombettiere Trombi e di due pinguini, la laboriosa uscita di tante tartarughine dal loro uovo, il recupero di un tapiro fuggito, un matrimonio combinato fra gorilla: attraverso queste pagine ricche di movimento (e di insegnamenti) seguiamo Durrell in tutte le vicissitudini della sua vita quotidiana nello zoo di Jersey, vissute e raccontate dallo scienziato e insieme dal bambino che le aveva sognate. -
La ragione errabonda. Quaderni postumi
Questo volume ci introduce nel laboratorio del pensiero di Colli: l’imponente massa di questi appunti, stesi fra il 1955 e il 1977, ci permette di seguire momento per momento l’intessersi di una speculazione che fu, sin dall’inizio, mirabilmente costante. Colli si affidava alla scrittura con diffidenza – e soltanto quando riteneva di aver raggiunto un risultato preciso. Qui, dunque, già dalle prime pagine ci troviamo nel cuore della sua tematica. Subito è evidente la sua preoccupazione di riconoscere i tratti della «hybris costruttiva della ragione», che egli considerava «responsabile della decadenza». Contro questa «ragione errabonda», inseguita in tutte le sue metamorfosi, in tutte le sue trappole, si è sempre rivolto il pensiero di Colli, ma con un senso di intensa fascinazione, che lo obbligava a descriverla in tutti i suoi meccanismi. Negli appunti qui raccolti assistiamo al tenace lavoro di progressiva sceverazione fra questa ragione, che divampò per la prima volta nella Grecia antica, divenendo infine il fondamento del mondo moderno – e un’altra faccia della Grecia, quella dei «sapienti», a cui Colli intendeva riallacciarsi. Come nei temi, egli fu costante nello studio dei suoi autori: i pensatori arcaici, da Parmenide a Empedocle – quelli appunto che Colli non voleva chiamare Presocratici, ma «sapienti» – Platone, Aristotele, Kant, Schopenhauer, Nietzsche. Si può dire che per lui la discendenza essenziale del pensiero fosse fissata in questi nomi: ai loro testi continuamente ritornava, per opporsi, per scoprirli. In Colli – e nulla lo rende tanto chiaro come questi quaderni postumi – la ricerca teoretica e la ricerca filologico-storica si intrecciavano e convergevano. Infatti, come egli scrisse in un suo appunto, «la sola via d’uscita sembra essere quella alle nostre spalle: procedere a ritroso, nell’esperienza e nella storia, per affrontare il passato al suo apparire».rnAllo strenuo lavoro tecnico che accompagnò la stesura dei suoi libri e delle edizioni da lui curate – testimoniato per esempio dalle ricchissime annotazioni sulla logica aristotelica nel periodo in cui egli tradusse e commentò l’Organon – si unisce in queste pagine un controcanto personale e segreto, prezioso filo per chi voglia intendere i suoi scritti. Seppure ostile alla filosofia sistematica, Colli si rivela, nel procedere della sua elaborazione teoretica, uno stupefacente costruttore, che a poco a poco aggiunge al suo edificio le pietre giuste, a lungo soppesate: e sono spesso le pietre che il nostro mondo ha tentato di gettare via. -
Il tempo e le opere
Questo volume si propone di raccogliere il meglio delle pagine saggistiche e critiche di Gadda finora disperse in riviste e giornali: ventisei scritti, vari per occasione, temi e stile, che vanno dal 1927 al 1968. È questa una zona poco conosciuta, e piena di sorprese, dell'opera di Gadda: non meno delle sue narrazioni, i saggi testimoniano la sua natura di ""mostro plurilingue"""". Così passiamo dal saggio sui """"Promessi sposi"""", che rimane una lettura capitale di quel romanzo, allo scritto sul """"cetriolo del Crivelli"""", di funambolica maestria stilistica, a pagine di prosa mallarmeana, dall'abbagliante biancore, come l'""""Autografo per Giorgio De Chirico"""", a certi testi felicemente polemici, come quello contro l'""""immortale monolingua"""" che da secoli incombe sulla letteratura italiana, rendendola tanto spesso incline a un vizio da Gadda aborrito: """"l'inanità dell'immagine"""". Nelle pagine su D'Annunzio, su Palazzeschi, su Montale troviamo poi altrettanti campioni di una ritrattistica acuminata, cosparsa dei segni inconfondibili del comico gaddiano. In Gadda il sovrapporsi e articolarsi delle lingue mira a inseguire l'inesauribilità del reale: come egli scrisse di Proust, la sua pagina """"è un imbuto sagace, che permette a lui stesso, e dopo di lui al suo lettore, di bere in una lenta sorsata i mille rivoletti, i mille apporti dell'analisi""""."" -
Gitagovinda
Il Gītagovinda, «il pastore del canto», è uno dei grandi testi dell’eros indiano – celebrazione della voluttà senza soggetto e insieme delle nozze dell’anima con Dio, che qui appare come il giovane Krsna «inghirlandato di bosco», incarnazione di Visnu. Il Gītagovinda canta le sue inesauribili avventure d’amore con le molte pastorelle dalle «carni tonde, lisce, quasi elastiche, dense della molle densità del miele che cola sopra il miele» e con la pastorella che è l’Amata prediletta fra le mille spose. I dati elementari di ogni storia d’amore – la gelosia erotica, il languore fantasticante della separazione, il brivido del ritrovarsi – parlano qui in immagini lussureggianti, come se ogni pulsazione del sentimento si dilatasse nel cosmo trascinando dietro di sé un corteo sontuoso di metafore. Mentre Jayadeva, raffinato poeta del secolo XII, scriveva il Gītagovinda, il dio Visnu volle sostituirsi a lui nella stesura di alcuni passi dove si cantano le bellezze della sua amante e in particolare in una strofa dove il dio prega la fanciulla di porgli sul capo «il bocciolo sublime» del suo piede, strofe che il poeta, per reverenza al dio, non osava concludere. Una voluttuosa delicatezza, la capacità di vivere il divino «tramite il fisiologico», come scrive Marguerite Yourcenar nel saggio che qui accompagna la prima traduzione italiana del Gītagovinda, ci vengono incontro da queste pagine abbaglianti che sembrano polverizzare, con un minimo gesto di Krsna, ogni «terrore superstizioso del fatto sensuale». -
Il mondo che ho visto
Questo libro è lultimo lavoro a cui si dedicò Mario Praz: una vasta scelta dai suoi scritti di viaggio (in buona parte mai prima raccolti), preceduta da unintroduzione inedita, che è un magistrale profilo della storia del Grand Tour. In queste pagine Praz osserva che «pochi viaggiatori sanno essere personali, sanno vedere con occhi che penetrano nellessenza delle cose» e accenna a certi scrittori che hanno lasciato, nei loro diari, puri elenchi di monumenti e chiese visitate. Praz è ovviamente lopposto: come nella sua attività di critico era attratto sempre e soltanto dalla peculiarità e dal risuonare delle peculiarità luna sullaltra così nella sua veste di viaggiatore lascia vibrare la sua attenzione, di preferenza, non già dinanzi agli spettacoli obbligatori, ma dinanzi a scene laterali, ad angoli dimenticati, a piccole enclaves nello spazio, verso le quali il suo passo rabdomantico è ogni volta attirato. Il suo amato Charles Lamb, «quando si recava a far visita a una qualche famosa country-house dInghilterra, per prima cosa chiedeva del salottino cinese». Allo stesso modo, dopo una doverosa gita alle Piramidi, Praz prende subito loccasione per una lunga visita alla deplorevole villa di Faruk. Quanto al neoclassico, lo insegue fino in Tasmania. E mai il greve orrore delle celebrazioni guerriere gli apparirà così incombente come nel War Memorial di Canberra. Ci sono luoghi e cose che sembravano attendere da tempo il suo sguardo: in un seminterrato alla periferia di Washington, una vera città fatta di case di bambole; le «carrozzelle decrepite» di una «Baden-Baden tropicale», la Petropolis di Pedro II; i palazzi di Nancy, dai «balconcini rococò... su cui i viticci e le conchiglie dorate serpeggiano come rampicanti delle Esperidi o dun altro paese di favoleggiata beatitudine...»; le rovine di Palmira, dove «il tempo ha smussato gli ornamenti, steso un velo di poesia su quel che poteva esserci di crudo, di provinciale in questo impero duna stagione». Mentre la vita immediata, invadente poco lo tocca, il suo vagare è una ricerca delle «anime morte delle innumerevoli cose». Per lui, «il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo». Allora è la sua acuminata percezione del senso del tempo a guidarlo verso lesistenza-sospesa, quasi ritagliata dal resto, dei suoi luoghi, come la minuscola St. Lukes Church di New York: «Simili angoli sono come i sogni della città, remoti archetipi che passano sullanima di una città come nubi, e la città pare per un momento dimenticarsi, rimanere sospesa sullorlo dunesistenza prenatale, ma poi la risveglia lo scampanio dei carri dei pompieri». -
Le dame galanti
Noi pensammo dunque che il miglior mezzo per rompere la nefasta fama che toglie dalla libera circolazione queste opere belle e meritevoli di essere lette da tutti, è il divulgarle, non più sotto il velo del libro clandestino ma nella veste chiara e nobile del libro classico». Così scriveva Alberto Savinio nel presentare la sua magistrale traduzione delle Dame galanti. E di fatto, a distanza di quattro secoli, Brantôme è finalmente passato, insieme al suo contemporaneo Tallemant des Réaux, dallo scaffale appartato dei classici galanti e osceni a quello dei classici tout court. Monumentale raccolta di aneddoti licenziosi, Le dame galanti è intriso in ogni sua riga di una ferina arguzia, quella che dominava allora alla corte di Francia. L’alterigia aristocratica e la sordidezza si mescolano qui assai spesso, e fra la beffa e la vanteria erotica si intrecciano storie brevi ed esilaranti. Nell’accumulare centinaia di episodi libertini, Brantôme sembra animato dallo scrupolo dell’enciclopedista, che vuol raccogliere ogni possibile variante della furia amorosa. Così, alla fine, questo guascone pettegolo e caustico riesce a creare un suo epos della profanità, dove una folla di dame insolenti nella lussuria fa corona a un immenso letto. La traduzione di Alberto Savinio, che fu da lui compiuta nel 1937 per l’editore Formiggini, viene qui ripresentata come esempio forse unico di restituzione nella nostra lingua, in tutta la sua sapidità, di un classico così peculiare. Un folto apparato di note, dovuto a Pascal Pia, permetterà di seguire nella loro realtà storica le vicende dei numerosi personaggi che appaiono e scompaiono sulla scena approntata da Brantôme. La prima edizione delle Dame galanti apparve nel 1665. -
Ultimi racconti
«Le storie si raccontano da quando esiste la parola, e priva di storie la razza umana sarebbe perita, come sarebbe perita priva dacqua» dice un personaggio di questi Ultimi racconti, frase che possiamo leggere come un codicillo testamentario. Tutta lopera della Blixen presuppone infatti che il narrare storie corrisponda a una nostra esigenza primordiale, a un desiderio che va costantemente nutrito, se non vogliamo che la vita stessa si inaridisca. Ed è un desiderio demoniaco, linvito a un «gioco spietato e crudele». Quanto alle domande sulle cose ultime, per la Blixen non era opportuno, né adeguato, rispondervi con un qualche concetto o sentenza, ma con una storia. E nessuna vera storia pretenderà mai di essere in sé la risposta, ma rimanderà sempre a unaltra storia: fondamento della vocazione della letteratura a non avere mai fine. Su questo presupposto Karen Blixen concepì un «romanzo» che doveva essere composto di cento racconti intrecciati e sarebbe stato la corona della sua opera. Non giunse a compierlo, ma la prima, mirabile parte di questi Ultimi racconti pagine in cui la Blixen si è avvicinata come mai prima a pronunciare il segreto della sua arte contiene sette storie che sarebbero dovute appartenere a quel libro dallo strano titolo: Albondocani, nome di un principe italiano derivato da quello di un sultano delle Mille e una notte, personaggio che sarebbe apparso e scomparso più volte nel corso del libro. Se il grande progetto della Blixen non giunse a compiersi (e avrebbe mai potuto?), tutta la sua opera compiuta va però vista nella sua luce: come unarchitettura aerea e sapientemente ponderata, dove alcune parti sono rimaste da costruire, ma altre sono cesellate in ogni dettaglio. Così anche gli altri racconti che compongono questo libro, pubblicato nel 1957, cinque anni prima della morte dellautrice, si riallacciano alle «storie gotiche» e ai «racconti dinverno», quali nuovi anelli di ununica catena, quali nuovi intarsi di una cornice che avrebbe avuto al centro una piccola pezza di lino immacolato, quel silenzio che sta al di là di tutte le storie e tutte le vere storie evocano.