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La torre
Due opere necessariamente incompiute accompagnano la vita di Hofmannsthal e sembrano esserne il cuore: da una parte il romanzo Andrea, dall’altra La Torre, il dramma che riprende la vicenda della Vita è sogno di Calderón. Il magico viaggio veneziano fra le maschere – e l’implacabile, statico cerimoniale spagnolo: sono le due facce di quella ‘Romània’, di quello specchio latino utopico dell’Impero absburgico, che è un fantasma perennemente attivo in Hofmannsthal e quasi il «luogo del suo linguaggio», come osserva Massimo Cacciari nel lungo saggio che accompagna questa edizione: un saggio che, a partire da questo fantasma, riesce a illuminare nelle sue articolazioni più segrete e delicate tutta l’opera di Hofmannsthal. Dal 1901 fino alla morte, nel 1929, Hofmannsthal lavorò a più riprese intorno alla Torre (di cui qui pubblichiamo l’ultima versione, del 1927, con l’aggiunta in appendice degli ultimi due atti della versione del 1925) – e la storia di come quest’opera gli si trasformò fra le mani equivale a una confessione. Il significato della vicenda di Sigismund – il principe prigioniero nella Torre, come una bestia selvaggia, perché gli astri hanno indicato in lui chi rovescerà l’Ordine – viene avvicinato sempre di più, e sempre più disperatamente con gli anni, alla situazione che Hofmannsthal viveva: quella di una crisi estrema di tutta la civiltà europea. La Torre è il vero (e in certo senso l’unico) «dramma del potere» dell’età moderna: in esso una visione lucidissima, disincantata del Politico si delinea su uno sfondo di macerie, quelle stesse che, per Walter Benjamin, formavano la scena naturale del «Trauerspiel» barocco tedesco: le macerie di un Ordine che ha perduto ogni possibile legittimità, e che perciò – non potendo più raggiungere la pace vera della «harmonia mundi» – si riduce a uno strumento scordato, luogo di tutti i conflitti e di tutte le separazioni. La Dittatura, allora, sarà il tentativo di celare con l’imposizione questa mancanza di fondamento del potere. E la grande arte di Hofmannsthal si rivela nell’offrirci questo conflitto insanabile «in figure», secondo il senso benjaminiano dell’allegoria – e perciò scavalcando le viete soluzioni del dramma di idee. Queste pagine, per la loro densità e per l’audacia della concezione formale, si distaccano radicalmente da tutto il teatro esplicitamente ‘politico’ del Novecento: come adeguato contrappeso, reggono soltanto Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, il grande antagonista di Hofmannsthal. Entrambi questi testi diversissimi sono una messa in atto dell’«impossibile» tragico moderno, presentato appunto nella sua impossibilità. -
La cura
Una pausa di due settimane nella vita di un intellettuale che aspira alla saggezza lo spinge – attraverso piccoli fatti in apparenza irrilevanti – a dubitare con buone ragioni di sé: e quell’intellettuale è Hesse stesso, che ironizza stupendamente sulla propria persona. Questo conflitto silenzioso, involontariamente comico ma non perciò meno duro, si svolge entro la cornice antiquata di una stazione termale: su tale pretesto, Hesse ha costruito una delle sue più perfette parabole, La cura (1925), che segue di poco a Siddharta (1922) e in certo modo ne è «l’altra parte». Come lì si assisteva a un itinerario verso l’illuminazione, qui si ‘smonta’ un illuminato occidentale troppo sicuro di sé, che viene messo in crisi da piccoli incidenti quotidiani – e da ciò è condotto a rivedere certe sue convinzioni troppo tranquille. Ma il punto di arrivo è lo stesso: in quella «psicologia dell’occhio cosmico» che è il grande dono di Hesse e davanti alla quale «non c’è più nulla di piccolo, di sciocco, di brutto, di malvagio, ma tutto è santo e venerabile». -
Il fattore della verità
Il testo che emblematicamente introduce non solo agli Scritti ma a tutta la psicoanalisi di Jacques Lacan è il celebre seminario sulla Lettera rubata, intessuto sul racconto di Poe dallo stesso titolo. Jacques Derrida sottopone in questo saggio il densissimo testo di Lacan alla stessa inesorabile analisi cui Lacan ha sottoposto il testo di Poe (qui riportato in appendice). E il risultato è che ne viene messa duramente in questione (e quasi colta in flagrante in certe sue segrete operazioni) tutta la struttura portante del pensiero di Lacan e, più in generale, la nozione stessa di analisi come luogo della «Verità». Con straordinaria lucidità, e non senza malizia, Derrida si lancia nell’impresa di ‘analizzare l’analista’, prendendo da essa occasione per riesaminare tutto lo statuto della psicoanalisi, sia in Freud sia in quella scuola che proclama la volontà di un ritorno al «vero» Freud. E ben presto si giungerà, seguendo il suo percorso, al punto cruciale: il sovrapporsi del luogo maestoso della Verità a quello – come noto assai temibile e ‘scivoloso’ per la psicoanalisi – della sessualità femminile. -
Incontri con animali
I molti lettori di La mia famiglia e altri animali sanno bene quale straordinario dono abbia Gerald Durrell per parlare di animali. Le sue esperienze di scienziato e viaggiatore in ogni parte del mondo alla ricerca di animali rari da salvare sono vastissime: ma è soprattutto la percettività del suo occhio, la partecipazione appassionata ai fatti della vita che rendono i suoi libri irresistibilmente attraenti. Incontri con animali è una serie di rapide storie accadute a Durrell e di «ritratti di animali», dai più domestici ai più selvaggi, da lui incontrati nell’Africa Occidentale e in Sud America, per la maggior parte. Sono storie che si snodano come una conversazione tra vecchi amici – e alla fine avremo l’impressione di essere circondati da svariati personaggi, evocati spesso in poche parole: da un formichiere femmina neonato, che si nutre col biberon, ad alcune maestose tigri, osservate nei loro drammatici corteggiamenti. Come ha scritto il «Times Literary Supplement»: «Se animali, uccelli e insetti potessero parlare, Gerald Durrell sarebbe probabilmente uno dei primi a ricevere da loro il Premio Nobel. Durrell è l’opposto dei vecchi naturalisti che si portavano dietro zanne e pelli e campioni di animali sotto vetro. Le sue creature sono vive come il suo stile». -
Walter Benjamin e il suo angelo
Tutta l’opera di Walter Benjamin è protetta dall’ala di un’immagine: quella di un acquarello di Klee, dal titolo Angelus Novus. E questa immagine, a sua volta, può essere intesa in tutti i suoi densi e sovrapposti significati soltanto se la si mette in rapporto con un breve, stupendo racconto in cui Benjamin svela qual è il suo «nome segreto»: Agesilaus Santander. Siamo qui, dunque, nel cuore del cuore di un’opera che, sempre più con gli anni, ci appare di una prodigiosa ricchezza di pensiero. E nessuno poteva essere più adatto di Gershom Scholem a interpretare questa cifra nascosta di tutto Benjamin. Scholem, infatti, grande ebraista e autore di fondamentali studi sulla cabbala, fu l’amico più intimo e affine di Benjamin per molti anni. E, proprio per la sua conoscenza magistrale della mistica ebraica, egli poteva apprezzare l’inesauribile sottigliezza teologica applicata da Benjamin con audacia a ogni sorta di materiale ‘profano’, dalla letteratura, al marxismo, alla sua stessa persona. Esaminando puntigliosamente, frammento per frammento, questo «mito dell’angelo», da cui discendono gli aggrovigliati rapporti di Benjamin sia con la Storia sia con se stesso, Scholem ricostruisce una sorta di percorso occulto che si può intravedere nella vita di Walter Benjamin. Il presente volume, oltre al saggio Walter Benjamin e il suo angelo (dove il lettore troverà, per la prima volta tradotto, il racconto Agesilaus Santander), contiene un profilo di Walter Benjamin scritto da Scholem nel venticinquesimo anniversario della morte del grande scrittore e amico, testo che ci offre una preziosa introduzione alla sua opera. -
Istruzioni alla servitù
Come e qualmente i Servitori possano e debbano disubbidire, confondere, ingannare, ridicolizzare, truffare, svergognare, umiliare i loro Padroni. Tale è l’oggetto a cui si dedica questo irresistibile trattatello, che accompagnò Swift per più di trent’anni e fu pubblicato infine nell’anno della sua morte, il 1745. Ad esso Swift confessò di dare grande importanza: e lo si può ben capire, non solo per l’incessante presenza, in queste pagine, del genio comico, ma per il loro valore in qualche modo di beffardo messaggio testamentario. Di fatto, nell’immemoriale guerra tra Servi e Padroni, questo trattatello, pur ostentando una sventata leggerezza, segna una data davvero storica e augusta. Qui Swift ha predisposto un vero manuale di sabotaggio, che ogni lettore accorto potrà facilmente trasporre dalla cucina a tutti gli altri possibili luoghi. Mostrandoci il Servitore che vessa il Padrone e lo sfrutta in ogni modo, egli ha leso l’aureola della Sovranità ben più gravemente che con un pamphlet di immediato tema politico. E insieme ha tracciato una Piccola Antropologia del Risentimento destinata ad avere molta fortuna. Ma bisognerà anche dire che Swift non sarebbe quell’immenso artista che è se per lui l’occasione, l’esempio non valessero anche e innanzitutto di per sé: così, anche trascurando le trasparenti applicazioni ‘ad altro’ di questo testo, non si può non rimanere incantati (ed esilarati) di fronte al quadro di nefandezze domestiche, descritte in ogni loro minuzia, che Swift ci offre, condensando a volte in poche righe intere epopee di dispetti e rappresaglie che dovevano essersi depositate per secoli, insieme alla polvere nelle case patrizie inglesi. -
L' intelligencija e la rivoluzione
Quando Blok pubblicò il saggio Intelligencija e rivoluzione, nel gennaio 1918, nei giorni decisivi della rivoluzione russa, grande fu l’eco delle sue parole. Perché con esse uno dei più prestigiosi poeti e portavoce dell’intelligencija – questa categoria peculiarmente russa, che è venuta a inglobare in sé tutta la nostra concezione degli «intellettuali» – si schierava dalla parte dei bolscevichi, all’insegna del motto: «Rifare tutto». Ci fu chi gridò al tradimento, altri seguirono Blok con entusiasmo. Ma, se si percorrono i suoi saggi qui per la prima volta raccolti, in parte scritti in quei vent’anni prodigiosi per la Russia che precedettero lo scoppio della Rivoluzione, in parte reazione diretta a quell’evento incommensurabile, vediamo che la posizione di Blok non è tanto il frutto di un convincimento politico («politicamente sono un analfabeta» scrisse una volta), quanto l’annuncio di un rinnovamento globale, dove le ambizioni cosmiche del simbolismo si mescolano con la furia elementare di Bakunin e l’antica spinta messianico-visionaria della cultura russa. Queste potenze diverse, che poi sarebbero diventate nemiche o comunque separate, convivevano in Blok in un precario e stupefacente equilibrio. Ed è anche per questo che leggere oggi i saggi di Blok è così emozionante – e dà una nostalgia che si rivolge al futuro. Come egli scriveva: «La vita ha valore soltanto se le si pone una esigenza infinita: tutto o nulla; attendere l’inaspettato; credere non già “in ciò che non esiste sulla terra” ma in ciò che deve esistere sulla terra, anche se non esiste ancora e non esisterà per lungo tempo». -
Teatro. La morte di Danton-Leonce e Lena-Woyzeck
«L’autore drammatico non è altro, ai miei occhi, che uno storico, ma sta al di sopra di quest’ultimo, perché egli ricrea per noi la storia una seconda volta: invece di fornirci un racconto secco e spoglio, ci introduce immediatamente nella vita di un’epoca, ci dà caratteri invece di caratteristiche, personaggi anziché descrizioni». Così Büchner, autore drammatico, definisce il proprio compito in una lettera alla famiglia del 1835. Aveva appena terminato La morte di Danton, il suo primo lavoro letterario, e neanche venti mesi lo separavano dalla morte in esilio a Zurigo, a soli 24 anni, spesi quasi interamente nell’attività rivoluzionaria e negli studi scientifici. Delle altre due opere, Leonce e Lena e Woyzeck – pubblicate parecchi anni dopo la sua morte –, Büchner non parla, almeno nelle lettere di lui che ci sono rimaste. Tanto maggiore ci sembra il prodigio nel vedere come quel giovane abbia potuto precorrere – in queste opere che costituiscono forse il tentativo più audace di rinnovamento che la storia del teatro del XIX secolo conosca – motivi formali e ideologici la cui riscoperta ad opera del naturalismo, e soprattutto dell’espressionismo alla vigilia della prima guerra mondiale, sarebbe stata definita da Walter Benjamin come uno dei «pochi avvenimenti politico-letterari dell’epoca la cui attualità deve apparire di una luce accecante alla presente generazione». Dalla prima rappresentazione di La morte di Danton, curata da Max Reinhardt nel 1916, a quella di Vogt del 1921 con Alessandro Moissi nella parte di Danton, il teatro di Büchner è entrato ormai a far parte del repertorio classico, sia in Germania, sia in Francia, sia in Italia. -
Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali
Aurora è l’opera con cui Nietzsche si avvia verso quella «guarigione», che viene a coincidere con la sua perfetta maturità, ed è anche l’opera in cui diventa centrale la «passione della conoscenza», a cui Nietzsche si abbandonerà fino all’ultimo. Lo stile aforistico raggiunge qui uno dei suoi apici: con le sue antenne ipersensibili Nietzsche si avvicina ai temi più vari: dal cristianesimo ai valori morali moderni, dalla décadence alla «cattiva coscienza», dalla civiltà greca al romanticismo tedesco. E ce li presenta col gesto più fermo e insieme delicato, in un libro dove – egli stesso ci consiglia – si può «metter la testa dentro e sempre di nuovo fuori, senza trovare intorno a sé nulla di consueto». -
Indiani in tuta
Jaime de Angulo seppe scrivere i suoi mirabili Racconti indiani proprio perché agli indiani d’America dedicò tutta la sua vita, mimetizzandosi quasi tra loro e assumendo la loro sensibilità, «unico bianco che volesse sedersi a mangiare con loro». E così ha potuto osservare da un punto di vista privilegiato il fenomeno inverso: il necessario mescolarsi degli indiani, per sopravvivere, alla civiltà occidentale. Questi Indiani in tuta, che sono i protagonisti del breve e intenso frammento di memorie che qui presentiamo, sono personaggi di straordinaria finezza, in bilico fra due mondi che solo de Angulo è riuscito finora a raccontarci. Dopo Alce Nero parla questa è l’altra epica, più moderna e nascosta, degli indiani d’America in contatto ormai remissivo con la civiltà dei bianchi, passati dalle loro grandi case sotterranee a squallide capanne fatte di bidoni, «piene di spifferi e di buchi nel tetto». Ma sempre aperti a quel «senso del meraviglioso» che aveva attirato de Angulo a condividere la loro vita, guardato con sospetto da molti antropologi, per i quali somigliava troppo a uno di quegli «ubriaconi che vanno in giro a rotolarsi nei fossi con gli sciamani». Eppure, forse proprio per questo, il suo occhio era tanto amoroso e lucido: «Mio Dio, è incredibile, passare dall’ascia di pietra al telegrafo senza fili nell’arco di una vita! Indiani in tuta; no, non c’è nulla di pittoresco in questi indiani ... in questi indiani che raccolgono i rifiuti dei bianchi nei mucchi della spazzatura ai margini della città. I miei indiani in tuta!...». Indiani in tuta è stato pubblicato per la prima volta nel 1950. -
I temi di Fritz Kocher
Questo primo, piccolo libro di Robert Walser, illustrato dalle deliziose vignette del fratello Karl, viene pubblicato a cento anni dalla nascita del grande scrittore svizzero. Sono pagine che hanno traversato il secolo (erano apparse nel 1903) senza nulla perdere della loro freschezza. Nella prima parte, con tocco leggero e svagato – da ‘temi in classe’ di un alunno rispettoso e diligente, dietro cui affiora l’ombra di un essere selvatico e imprendibile – esse ci danno un esempio, subito perfetto, di quella che rimarrà l’arte suprema e più praticata da Walser: l’arte della ‘piccola prosa’, brevi racconti, fantasie, schizzi, dove solo Kafka gli sta a pari. Dopo questi ‘temi’ Walser ci presenta, invece, alcuni ‘ritratti’ (del ‘commesso’, dell’artista – un pittore che assomiglia molto al fratello Karl –, del bosco, che sta a rappresentare la natura tutta): e anche qui lo vediamo tracciare con sicurezza il profilo di personaggi e situazioni che poi sempre lo accompagneranno. Fra questi ritratti spicca, come un’anticipazione su tutta l’opera e la vita di Walser, quello del commesso, questo essere trascurabile e anonimo, che gli scrittori, osserva Walser con la sua perenne ironia, non avevano ancora ritenuto degno di attenzione, forse perché «troppo banale, troppo innocente, troppo poco pallido e deperito, troppo poco interessante, per servire come materia ai signori scrittori». Ma Walser non appartiene ai «signori scrittori», anzi, proprio in quella innocente quotidianità del commesso, dietro cui sta sigillata l’angoscia, riconosciamo il mondo simultaneamente felice e disperato del suo cantore – e anche la scena della sua vita, che fu per anni quella precaria e migrante di un commesso sballottato di posto in posto: un nomadismo inappariscente, che corrisponde al movimento fluido, ininterrotto, della sua prosa. -
Enten-Eller. Vol. 3: Un frammento di vita.
Questo terzo volume di Enten-Eller contiene quello che forse è lo scritto in assoluto più celebre di Kierkegaard, Il diario del seduttore, preceduto da un altro testo, La rotazione delle colture, che invece appare per la prima volta completo in italiano e sarà una sorpresa memorabile: qui, in poche decine di pagine, partendo «dal principio che tutti gli uomini sono noiosi», Kierkegaard disegna un vertiginoso arabesco metafisico, che contiene, senza troppo dichiararla, una critica distruttiva della società che lo circondava. Quanto al Diario del seduttore, il lettore potrà qui constatare ancora una volta la novità della nostra edizione di Enten-Eller rispetto alle precedenti: Il diario del seduttore era stato sempre presentato, infatti, sino ad oggi, arbitrariamente da solo, e non come parte e contrappunto di un’opera tentacolare, quale è appunto Enten-Eller. Restituito al suo luogo, e in connessione con altri testi finora ignoti al lettore italiano, Il diario del seduttore sarà letto in una prospettiva del tutto nuova. La traduzione, inoltre, si propone di far apparire in tutta la loro nettezza le sottigliezze stilistiche di quest’opera. Così apparirà, in tutti i suoi molteplici e ingannevoli piani, un testo dove il pensiero, secondo il gesto segreto di Kierkegaard, e quasi vergognandosi delle regole espositive della filosofia, si camuffa nella divagazione e nel romanzo per continuare ad aggirarsi, imprevedibile, per il mondo. E Il diario del seduttore è appunto un esempio perfetto di quel procedimento. -
Vita di Apollonio di Tiana
Si racconta che l’imperatore romano Alessandro Severo tenesse fra i suoi Lari, oltre alle effigi degli imperatori deificati e dei suoi avi, quelle di certi «santi spiriti» tra cui Apollonio di Tiana, Cristo, Abramo e Orfeo. Ma chi era questo Apollonio di Tiana, degno di stare accanto a un «nuovo dio» come Cristo o a una primordiale figura del mito come Orfeo? Ben difficile è ricostruire la realtà storica di questo «mago e stregone abilissimo» (come lo definisce Dione Cassio), su cui scarse sono le testimonianze dirette, del I secolo dopo Cristo. Ma negli anni successivi alla sua morte vediamo crescere la sua leggenda e si impone il parallelo, e il contrasto, fra Apollonio e Gesù, che doveva valere a rivendicare gli dèi pagani, ormai stanchi, e a dimostrare che i miracoli di Gesù non erano in fondo maggiori di quelli del sapiente Apollonio. Infine, tra il II e il III secolo, il letterato Filostrato (su commissione della temibile Giulia Domna, moglie di Settimio Severo e devota ad Apollonio) scriverà questa Vita che rimane una delle creazioni che meglio ci danno l’aura del tardo mondo pagano. Certo, per noi oggi quest’opera non è preziosa soltanto per le enunciazioni dottrinali (dove ritroviamo tanti tratti di un esoterismo sincretistico), quanto per la sua qualità di romanzo favoloso, dove tutto il mondo antico, da Roma all’Asia Minore, all’India, ci si mostra come sfondo delle avventure di questo mago itinerante e sentenzioso, di questo guru che è, come non potrebbe non essere, insieme cialtrone e divino. Inoltre la Vita non ci offre soltanto i fatti memorabili di Apollonio, ma ci appare come una narrazione sinuosa, piena di incantevoli digressioni etnografiche, naturalistiche, mitologiche, antiquarie. Se tentiamo di coglierne il profilo, possiamo vederla innanzitutto come una sorta di itinerario nel meraviglioso, non meno variegato e appassionante di quello di Marco Polo: «Passano così nel racconto strani animali e piante prodigiose, sterminate pianure e monti che paiono invalicabili e fiumi larghi come mari, città ciclopiche e palazzi tutti d’oro, genti d’altre razze e i loro re e sacerdoti, leggi, usanze, tradizioni di un mondo diverso» (così scrive Dario Del Corno, che qui ha tradotto, introdotto e commentato per la prima volta in italiano l’opera di Filostrato). E alla fine di questo grande viaggio Apollonio apparirà anche a noi come l’ultimo, sontuoso riflesso del mondo magico e religioso pagano prima del suo inabissarsi. E ripenseremo ai versi in cui lo evocava il grande Kavafis: «Forse non è venuto ancora il tempo / d’una sua nuova comparsa nel mondo, / o forse, ignoto, in una strana metamorfosi, / fra noi s’aggira. – Un giorno apparirà / com’era, in atto d’insegnare il vero: allora / certo riporterà il culto degli dèi / nostri, i nostri squisiti riti ellenici». -
Specchio d'astrologia
«Ho frugato i cespugli della terra e ne sono uscite le Bestie dello Zodiaco, allora ho inseguito le Bestie come in una caccia» – scrive Max Jacob in epigrafe a questo libretto. Il suo spirito estroso e pungente, che aleggiava come quello di un angelo beffardo sulla Parigi del dada e del surrealismo, riporta un ricco bottino da questa caccia: un manualetto di astrologia maneggevolissimo e preciso (scritto in collaborazione con l’astrologo Valence), dove per ogni segno, dopo gli elenchi delle varie qualità e difetti caratteristici (oltre che delle corrispondenze del segno in ogni ambito della realtà, dai sapori ai profumi alle pietre preziose), seguono come esempi viventi i ritratti delle singole Dame dei Segni. E sono ogni volta racconti leggeri e penetranti, affettuosi e acidi: ognuno reca l’impronta di un segno dello Zodiaco su persone che Jacob sa descrivere con tale familiarità da farcele sembrare vecchie conoscenze non solo sue ma nostre. Non c’è dubbio, poi, che questo libro sfugga a un vizio comune di tanti manuali di astrologia: quello di assommare troppe Virtù nei ritratti dei vari nativi, fino a stemperare le differenze. In Jacob, al contrario, vediamo che un soffio di invincibile misoginia (forse per eccesso di comprensione?) lo spinge a sottolineare, se mai, più i vizi che le Virtù delle sue Dame. Così, con calibrata frivolezza e una certa sorniona malizia, Jacob non ci offre soltanto un variegato Zodiaco femminile ma un indiretto autoritratto di Max-Jacob-fra-le-donne. -
Teatro naturalistico. Vol. 1: Il padre-Creditori.
Dopo il teatro simbolistico di Strindberg, rappresentato dal Teatro da camera e Verso Damasco, s’inizia con questo volume la pubblicazione del suo Teatro naturalistico, verso cui si è accesa in questi ultimi anni una particolare curiosità. Il padre e Creditori sono due testi fra i più importanti, e relativamente meno noti, di Strindberg. Appartengono entrambi agli anni 1886-1888, straordinariamente creativi per lui, gli stessi in cui fu scritta la celebre Signorina Julie e Predatori. È questo il periodo del massimo avvicinamento di Strindberg al teatro naturalistico: ma, anche questa volta, si tratta di una categoria letteraria che verrà in certo modo stravolta dall’autore, per farne qualcosa di inconfondibilmente suo. Il padre, che Nietzsche lesse «con profonda commozione e con eccezionale sorpresa», è un dramma che Strindberg dichiarava di aver scritto «con l’accetta e non con la penna», quadro di orrori domestici sconvolgente per intensità e chiaroveggenza; e qui, forse, Strindberg è riuscito a creare il più terribile fra i suoi personaggi femminili: una moglie borghese che, dietro le tranquille apparenze, è una vera «artista del crimine» e con poche, sottili perfidie riuscirà a far passare per pazzo il marito. Creditori è un «dramma a tre» fra due uomini e una donna: chiusi in una casa, smuovono i reciproci debiti e crediti psichici, svelando a poco a poco una storia di reciproci cannibalismi, a tratti – come tanto spesso nel miglior Strindberg – furiosamente comica e macabra, una di quelle storie in cui Strindberg è ineguagliato maestro. -
La vita di Konrad Lorenz
Quando Konrad Lorenz, nel 1973, ebbe il Premio Nobel per la medicina, insieme a von Frisch e a Tinbergen, la sua fama era già enorme – e la curiosità dei lettori già da tempo puntata su di lui come persona oltre che come scienziato. Non solo ‘padre’ di una nuova disciplina, l’etologia, che si sta ormai sviluppando rigogliosamente, ma propugnatore di tutto un nuovo modo di avvicinarsi al mondo degli animali e alla natura, evitando per quanto possibile le coazioni del laboratorio, Lorenz è uno dei rari scrittori che oggi possono essere definiti veramente popolari. Negli ultimi anni, poi, sempre più spesso, Lorenz si è proposto di segnalare, in quanto etologo, le insidie più gravi che minacciano la specie umana. E la sua autorità ha fatto sì che i suoi interventi avessero un notevole peso: basti pensare al recente referendum austriaco per la nuova centrale nucleare, dove un appello di Lorenz alla televisione contro le centrali nucleari, proprio il giorno prima del referendum, sembra esser stato determinante.rnMa qual è stato il percorso della vita di Lorenz? Questo libro di un giovane scienziato inglese lo ricostruisce per la prima volta, sulla base di un’ampia documentazione e con l’ausilio di numerose conversazioni che l’autore ha avuto con Lorenz stesso. Estremamente equilibrata nel presentare e discutere tutti gli argomenti pro e contro Lorenz, tutta la forza delle sue scoperte ma anche le debolezze di certi suoi momenti, questa biografia disegna poi con vivacità il profilo di una persona affascinante e caparbiamente appassionata alle sue ricerche, unendo la scorrevolezza e la dovizia dell’informazione. Tutta la singolare avventura dell’etologia balzerà fuori da queste pagine come una vicenda ancora in gran parte da scoprire – e al centro di essa la figura del suo protagonista, che continua ancora oggi, nella vecchia casa di famiglia di Altenberg, in Austria, a vivere insieme agli animali, come già faceva da ragazzo. Fra l’uno e l’altro momento, più di cinquant’anni di riflessioni e osservazioni che hanno cambiato radicalmente il nostro modo di vedere il ricchissimo mondo degli animali.rnLa vita di Konrad Lorenz è apparso per la prima volta nel 1976. -
L' infanzia dorata-Ricordi familiari
«Linfanzia dorata era qualcosa di assai diverso dalla jeunesse dorée, da cui lespressione è derivata, e cioè non una effimera figura del costume, bensì, si potrebbe dire, un vero e proprio mito: o comunque una concezione di vita tanto più perentoria e quasi fanatica perché semisommersa nellinconscio, e tanto più fornita di attrazione collettiva perché coltivata come espressione di privilegio. «Il titolo di questo libro non dovrebbe dunque portare a fraintendimenti. La storia che qui si è cercato di ricostruire, col materiale delle memorie, è quella di uninfanzia non dorata, educata, nellItalia fra le due guerre, con quei criteri ispirati alla tradizione liberale che, nellopposizione al fascismo, serano fatti necessariamente più rigorosi. Se il racconto, quasi tutto dedicato allinfanzia (intesa in quella dimensione più ampia che ha in tedesco la parola Jugend), si conclude con uno scorcio che porta, in poche pagine, sino alla soglia della maturità, ciò è dipeso da quella naturale prospettiva per cui il ricordo di sé che si conserva dallinfanzia e che nella giovinezza viene schiacciato dal premere delle convenzioni sociali che si affrontano, si ripresenta, nella maturità, come premessa chiarificatrice dei problemi morali che ormai si sono riconosciuti come nostri». Con queste parole Elena Croce presentava Linfanzia dorata nel 1964. Oggi ripubblichiamo questo testo insieme ai Ricordi familiari, centrati sulla figura del padre, Benedetto Croce, come un dittico memorialistico di rara felicità: il lettore vi ritroverà un modo di osservare la propria vita e il proprio ambiente insieme con distanza e partecipazione, in uno stile in cui si avvertono le tracce dellappassionata familiarità dellautrice con i mondi di Hofmannsthal e di Ortega, componenti austriache e spagnole di unEuropa incompiuta a cui anche Benedetto Croce apparteneva. -
L' apocalisse del nostro tempo
L’Apocalisse del nostro tempo è l’ultima opera di Rozanov, pubblicata nel 1918 con sistema quasi artigianale, sotto forma di opuscoli inviati ai sottoscrittori. Mentre gli avvenimenti della Rivoluzione infuriavano, Rozanov, spossato e ridotto alla miseria, rivolse la stessa penna che aveva saputo esprimere «i filamenti autunnali, i sospiri, quanto è pressoché impercettibile», a descrivere la «svolta apocalittica» che intravedeva. Ne nacque questo libro, fremente cronaca visionaria di un immenso rivolgimento, di una crisi che è poi diventata il nostro stato normale – e insieme pamphlet contro il cristianesimo moderno. Uomo di tutti i paradossi, poco prima di morire come un grande mistico cristiano Rozanov volle lanciare il più devastante attacco contro la propria religione, in cui vedeva l’origine di quell’orrendo progressismo e di quella graduale rescissione dalla natura che aveva sempre aborrito. E qui, ancora una volta, l’intreccio volutamente contraddittorio degli argomenti di Rozanov viene esaltato dallo stile: la Russia come «Impero in briciole» sembra specchiarsi tutta in questa prosa a brandelli, sinuosa e baluginante, abitata in ogni sillaba dalla «fantasticheria russa», da quel «vagare per monti e per valli che è così russo» e sarebbe stato combattuto, come Rozanov intuì subito, dai tanti funzionari della Rivoluzione che si apprestavano a prendere il potere. Col suo invincibile odio-amore, Rozanov ci ha dato in questo libro una visione chiaroveggente del momento più intenso e terribile della storia russa di questo secolo: «Šcedrin, ti prendo e ti benedico. Russia maledetta, Russia benedetta». -
Scritti su Wagner: Richard Wagner a Bayreuth-Il caso Wagner-Nietzsche contra Wagner
L’incontro, l’amicizia e il dissidio fra Nietzsche e Wagner formano una vicenda inesauribile, che si pone sulla soglia di tutto il moderno. E non solo per l’enormità dei due amici-avversari. Ma per la natura ingannevole, enigmatica, perennemente teatrale del loro rapporto: per cui vediamo Nietzsche che, nella fase della massima venerazione per Wagner, insinua i dubbi più feroci e taglienti, mentre nella vertiginosa, beffarda prosa del Caso Wagner lascia intendere che il suo avversario è pur sempre il suo unico interlocutore. Così, passando dal Wagner a Bayreuth, che è del primo, entusiastico Nietzsche, al Caso Wagner e al Nietzsche contra Wagner, testi scritti o approntati negli ultimi mesi di Torino, si percorrerà una traiettoria davvero fatale. Per ricostruirla, mostrandone tutte le ambiguità, le prospettive, i rimandi cifrati, infine il carattere profetico rispetto a tutta la storia successiva della musica (e non solo di essa), sarà prezioso il lungo saggio di Mario Bortolotto, che per la prima volta ci offre una ricostruzione critica di quel rapporto adeguata alla multiforme grandezza dei suoi due poli. -
Rapsodie gitane
Blaise Cendrars è stato il grande avventuriero della letteratura moderna, l’eterno nomade, vorace, curioso, affabulatorio, oscillante fra la Legione Straniera e il music hall, fra le roulettes degli zingari e la pampa, fra la moviola e la Transiberiana. Da quando scappò di casa, nel 1903, a sedici anni, la sua vita non ha fatto che cambiare rapinosamente scenari, lo ha immerso in mondi sbarrati e cifrati per gli estranei, dove però si trovava ogni volta ad abitare con naturalezza. Viaggiava senza tregua, ma non è stato mai un turista. Quasi senza farci caso, fu tra gli inventori della poesia moderna. Ma si sottrasse subito a quella trappola che era il mestiere dell’avanguardia. Con strafottenza e fierezza, proclamava: «Io non intingo la penna in un calamaio, ma nella vita». Col suo gusto infallibile per il concreto, per la peculiarità dei sapori, trovava ovunque l’enormità, l’immagine dirompente, traboccante: nella periferia di Parigi come nei suoi vagabondaggi sudamericani (mentre i suoi colleghi andavano a Mosca: «Gli altri credevano all’avvento del socialismo perché sono di formazione universitaria, io no. Io prevedevo soltanto l’antico massacro… la guerra sofisticata dalla scienza»). Gli mancava senz’altro la «formazione universitaria», ma forse appunto per questo Cendrars fu anche una sorta di erudito selvaggio, uno dei pochi che sapevano riconoscere nelle biblioteche un’ultima giungla. Nelle Rapsodie gitane (1945) Cendrars traversa a zigzag la sua vita – e mai come in queste pagine lo sentiamo presente, in tutta la densità della sua persona. Qui Cendrars si abbandona senza ritegno all’arte della narrazione orale, in cui sapeva maestri i suoi amici gitani, quando si raccontano le storie della tribù, nelle veglie notturne accanto al fuoco. Vivere non basta, bisogna raccontare. Così, in mezzo a fascinose digressioni, maestose anse, fulminee deviazioni, lo seguiamo mentre evoca figure incancellabili: l’eccentrico poligrafo Gustave Le Rouge e i suoi armadi a specchio, la messicana Paquita, «strega depravata», dal colossale patrimonio, con la sua sbalorditiva collezione di bambole di cera, il gitano Sawo e le sue atroci storie di vendette, rivalse, gelosie tribali. E qui la letteratura, che Cendrars aveva finto di voler abbandonare, si prende la sua tarda vittoria: perché ogni storia lievita e si dilata di là da ogni possibile documentabilità biografica. C’è qualcosa di continuamente eccessivo e improbabile e, insieme, di palpabilmente vero in ciascuna di queste «rapsodie». Forse anche perché ci arrivano traversando una vita che era tutta una affabulazione. E, ci ricorda un personaggio di Cendrars, «quando uno racconta, ricama su qualcosa di già ricamato. Così la verità viene chiusa in una rete da cui non scapperà più».