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Storia e utopia
Quando questo libro apparve, nel 1960, suonò come una voce appartata, subito coperta dal chiasso delle cose in baldanzoso movimento; oggi quello stesso movimento delle cose lo ha suffragato, a distanza di tempo, in modo allarmante. Ma Cioran non va misurato su alcuna attualità che non sia quella, perenne, di una caduta originaria, la «caduta nel tempo». Come leggiamo in questo libro, «una volta cacciato dal paradiso, l’uomo, perché non ci pensasse più e non ne soffrisse, ottenne in compenso la facoltà di volere, di tendere all’atto, di inabissarvisi con entusiasmo, con brio». Di quell’accecato entusiasmo, di quel sinistro brio è fatto ciò che da qualche secolo chiamiamo storia. All’interno di essa agiscono certe forze immense che non solo gli storici, ma i pudibondi psicologi dimenticano sempre più spesso di nominare. Cioran sa osservarle con la maestria di un moralista di Versailles che si sia educato su Dostoevskij e sulle taglienti discriminazioni dei testi buddhisti: la «nostalgia della servitù» e l’«euforia della dannazione», il «delirio dei miserabili» e le «virtù esplosive dell’umiliazione», altrettante tappe di un grande viaggio che qui viene definito «l’odissea del rancore». Ma c’è qualcosa di ancora più disperante della storia: la pretesa di uscirne con i mezzi forgiati dalla storia stessa, l’utopia. Se dissipiamo la loro cornice di Buone Intenzioni, le utopie sono inferni rosati, che non esercitano più neppure l’attrazione dell’orrido. E il loro difetto non è nella lontananza dalla realtà, ma nella capacità di anticiparci con notevole precisione un futuro di squallore. «I due generi, l’utopistico e l’apocalittico, che ci sembrano così dissimili, si fondono, stingono adesso l’uno nell’altro per formarne un terzo, meravigliosamente adatto a rispecchiare la sorta di realtà che ci minaccia e alla quale diremo tuttavia di sì, un sì corretto e senza illusioni. Sarà il nostro modo di essere irreprensibili davanti alla fatalità». -
Poesie
«Non ho alcuna esitazione nell’affermare che Czesław Miłosz è uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande» scriveva qualche anno fa un altro poeta, Iosif Brodskij. Poi giunse, nel 1980, il premio Nobel – e molti lettori in tutto il mondo cominciarono a scoprire l’opera complessa e intensa di questo scrittore, che da anni si trovava nella paradossale condizione di essere circondato da persone che non leggevano la sua lingua, mentre i suoi libri erano proibiti a coloro che la leggevano. Nato in Lituania nel 1911, esule dalla Polonia sin dal 1951, Miłosz «ha ricevuto quella che si potrebbe definire l’educazione standard dei paesi dell’Europa orientale, che ha incluso, fra l’altro, l’esperienza del cosiddetto Olocausto, già da lui profetizzata nelle liriche della seconda metà degli Anni Trenta». E «la sua terra, dopo essere stata devastata fisicamente, gli venne sottratta e distrutta spiritualmente» (Brodskij). Questo poeta metafisico, in perpetua complicità con l’invisibile, è stato costretto dalla storia a vivere l’invisibile innanzitutto nella sua forma più letterale e più ossessiva: come ressa dei morti e delle cose scomparse. Il poeta è qui sempre il sopravvissuto, che si mormora un verso sobrio e terribile. «E il cuore non muore quando sembra che dovrebbe». Quei morti sono subito «lontani come l’imperatore Valentiniano, / come i condottieri dei Massageti, di cui non si sa nulla», eppure tendono a riapparire, seduti a un caffè familiare, e guardano il sopravvissuto, «scoppiando a ridere». Che il passato sia connesso a una devastazione totale dà alla memoria, in Miłosz, una dimensione di conquista dell’immagine sul fondo del vuoto. Per questo ogni oggetto, ogni nome, ogni albero da lui nominato hanno una tale evidenza, lacerata ed estatica. Essi si pongono tutti vicino a quella «frontiera mobile / Oltre la quale colore e suono si compiono / E sono congiunte le cose di questa terra». Quella frontiera ci separa da una terra visionaria: Blake e Swedenborg ne hanno dato notizia, e la loro voce risuona in Miłosz. Nel suo verso spesso vibrano insieme una «vastità cosmica della visione» (per lui il primo criterio della grande poesia) e la pura attenzione, insegnata da Simone Weil. Allora, sottintesi tutti i naufragi, il poeta torna a essere «uno dei tanti / Mercanti e artigiani dell’Impero del Giappone / Che componevano versi sui ciliegi in fiore, / I crisantemi e la luna piena». -
Il piccolo almanacco di Radetzky
«Non abbiate timore. A prima vista / può sembrare poesia, ma sono storie / di due guerre, raccolte da un cronista / che si è perduto fra vecchie memorie. / Il testo, anche se ha righe disuguali, / non differisce in nulla da una prosa, / con nomi, date e luoghi ben reali – / sia documento o cronaca o altra cosa». Questo cronista ha sfogliato a lungo gli «annali dispersi» dell’Impero absburgico, ha educato l’orecchio alle sue nitide voci, con sottigliezza, con eleganza si è esercitato a riprodurle, trascrivendole in versi assai discorsivi, che legano queste vicende come l’aria che esse tutte respirarono. Se Grillparzer disse per Radetzky: «dove è il tuo campo, lì è l’Austria», oggi possiamo dire che dove sono quelle voci, lì è l’Austria. Personaggi e vicende: una onorificenza per Franz Kafka; un’avventura del tenente Musil; la famiglia Canetti al concerto; da Cracovia l’addio di Georg Trakl; le notti di Alban Berg in camerata; un discorso di Hofmannsthal a Vienna; l’ultima ora dell’Imperatore; il Golem è apparso a Gustav Meyrink; Ettore Schmitz tra i naufraghi del Wien; Wittgenstein da Asiago a Cassino; Anton Webern protesta e scrive lieder; Karl Kraus detta epitaffi per gli amici; Oskar Kokoschka è dato per disperso; l’epidemia uccide Egon Schiele. Voci che qui ci parlano in storie familiari e remote, chiuse in sé come altrettanti medaglioni, fogli di un ‘lunario’ che racconta, dal 1914 al 1918, anno per anno, mese per mese, il tramonto dell’Impero e le vicende personali dei suoi scrittori e dei suoi artisti, fino alla sconfitta che distruggerà la vecchia compagine e libererà nuovi demoni. Dopo Il piccolo almanacco di Radetzky la seconda parte del volume, sotto il titolo In memoria di alcuni prigionieri, è dedicata a sei vittime dei nuovi demoni, a sei figure in vario modo esemplari nella tragedia della seconda guerra mondiale. -
Claustrofilia
Nel suo scritto quasi testamentario sull’«analisi interminabile» Freud individuava il più maligno problema dell’analisi nella sua tendenza a un prolungamento indefinito. La storia successiva gli ha dato conferma: oggi schiere innumerevoli di persone sono in analisi da anni, e per anni si apprestano a continuare. Se ciò avviene, afferma Fachinelli, è perché l’analisi è caduta vittima del suo stesso inconscio: paradossalmente, essa è rifluita in un’«area claustrofilica», dove fra analista e paziente si instaura un rapporto di «unità duale» che rimanda a quello tra la madre e il bambino, alla nascita e prima di essa. Con procedimento affascinante, Fachinelli non ci espone qui soltanto le sue tesi, ma racconta come esse sono nate nella sua pratica analitica, come ha visto lentamente delinearsi due presenze inquietanti che magnetizzano la relazione claustrofilica: le esperienze di doppio e di coincidenza. Siamo qui vicini alle colonne d’Ercole della psicanalisi, se si pensa al sacro timore che già Freud mostrava per quelle presenze. Qui, inevitabilmente, «le acque si mescolano», la psicologia è costretta ad affrontare fenomeni usualmente relegati nell’inferno della parapsicologia e il «perturbante», che una buona parte della pratica analitica vorrebbe addormentare, si rivela essere il protagonista dell’analisi stessa. La condanna che esso riserva a chi non lo riconosce è quella di rimanere stregato dentro la foresta da cui vorrebbe incessantemente uscire. -
Gli ultimi giorni di Immanuel Kant
La vita di Immanuel Kant, scrive De Quincey, «fu notevole non tanto per i suoi avvenimenti quanto per la purezza e la dignità filosofica del suo tenore quotidiano». Era un ordine perfetto e infantile, dove ogni minuzia della giornata veniva osservata con lo stesso rigore, con lo stesso scrupolo di trasparenza che il grande filosofo dedicò ai problemi epistemologici. Nel corpo minuto di Kant, nelle sue maniere austere e amabili vivevano i Lumi, giunti al grado più nobile e penetrante del loro fulgore, come in un delicato involucro. E un giorno quel perfetto ordine avvertì i primi segni del declino. Da allora, ingaggiò una lunga, testarda lotta contro le forze della disgregazione. Thomas de Quincey, collazionando le varie testimonianze di amici sull’ultimo periodo della vita di Kant, e utilizzando soprattutto quella, insieme modesta e rapace, di Wasianski, ne ha tratto una narrazione che corrisponde agli antichi tratti del «sublime». Dinanzi al progressivo decadere di quella vita mirabilmente costruita, dinanzi alla raccapricciante comicità di certe scene e allo strazio immedicabile di altre, viene naturale dire di questo testo, in cui convivono, come rare volte accade, la più acuminata modernità e un purissimo pathos: chi ha lagrime per piangere pianga. -
Epistolario
La maggior parte delle lettere che compongono questo volume è del tutto inedita o qui pubblicata per la prima volta nella sua interezza. A distanza di più di settantanni dalla morte di Michelstaedter, che sempre apparve come un temibile enigma, possiamo dire finalmente con questo libro di sapere qualcosa della sua vita. Ed è un qualcosa di immensamente vivo, dettagliato, coinvolgente: un documento prezioso che nulla toglie alla enigmaticità di Michelstaedter, ma conferisce alla sua fisionomia un profilo più netto, una voce penetrante, il fascino di una invincibile gioventù che convive con una maturità precoce e devastatrice. Quando, nellottobre del 1905, il diciottenne Carlo Michelstaedter lasciò Gorizia per andare a studiare alluniversità di Firenze, quella partenza gli appariva al tempo stesso come «esiglio» e come inizio di unavventura. Da principio quasi ora per ora, poi sempre con grande slancio e naturalezza, oltre che con ironia, spesso esilarante, raccontava nelle lettere ai suoi le impressioni che gli venivano incontro: gli amici di famiglia, per lo più della buona borghesia ebraica, che lo accolgono nelle varie città, descritti in brevi tratti corrosivi; le bellezze dItalia che appaiono finalmente dal vero e gli fanno «scorrere nel corpo come unonda di bellezza»; i professori, i compagni, luniversità, la vita di tutti i giorni. Cè unaffettuosa immediatezza in queste lettere, una vitalità prorompente, che evita senza esitazioni ogni paludamento retorico, così frequente nellItalia di quegli anni, e nei giovani non meno che negli altri. Poi, fin dalle prime, bellissime lettere damore, si cominciano ad avvertire i segni dellaltro Michelstaedter, quello della Persuasione: laddensarsi di unesperienza solitaria, la cristallizzazione di un pensiero aspro, estremo, che vive sin dallinizio nellintimità con il proprio naufragio. Da una posizione di apertura totale al mondo, mobile e irriflessa, nel giro di pochi mesi e anni assistiamo a un richiudersi esigente e doloroso. Solo le lettere ci permettono di seguire, momento per momento, questo processo. Così una volta Michelstaedter vi alluse, scrivendo a Chiavacci: «Mi sto richiudendo e godo della curva graziosa che le foglie fanno per riunirsi; in tanto dagli ultimi spiragli scappano precipitose queste poche righe». -
Dialoghi delfici. Il tramonto degli oracoli-L'E di Delfi-Gli oracoli della Pizia
Il tramonto degli oracoli è forse il testo più grandioso che ci parli della fine del mondo antico. Nessun’altra immagine di storico o di poeta ha l’eloquenza desolata di Plutarco, quando ci presenta la terra che «un tempo straripava di voci oracolari» e «ora si è completamente inaridita, come una sorgente che si esaurisce». Narra una storia che aquile, oppure cigni, «partiti dai limiti estremi della terra e diretti al suo centro», si ritrovarono a Delfi, «ombelico» del mondo. Ma ora anche lì gli oracoli rischiano di giacere «muti come strumenti trascurati dai suonatori», mentre una voce soprannaturale annuncia ai naviganti la morte di Pan, e un lungo gemito risponde all’annuncio. La testimonianza di Plutarco ci appare tanto più significativa in quanto egli stesso fu per vent’anni uno dei sacerdoti di Delfi: questo amabile saggista, questo Montaigne della tarda antichità era anche un custode dei suoi segreti. Ed è commovente ascoltarlo nella sua difesa dell’oracolo, quand’anche esso non parli più in versi, ma in prosa, come vuole il tempo del declino. Mai come nei «dialoghi delfici», che sono raccolti in questo volume, il carattere bifronte di Plutarco, che si rivolge al tempo stesso alla divagazione letteraria e alla verità esoterica, si rivela in tale evidenza. E tanto basta a fare di queste pagine il congedo più ammaliante e più misterioso dal mondo pagano. -
L'anima dell'indiano. Un'interpretazione
Questo libro è unico tra le molte introduzioni alla civiltà degli indiani d’America, innanzitutto perché non lo scrisse un antropologo ma un indiano, un Sioux cresciuto negli anni tragici in cui si compiva il massacro della sua gente. Eastman però conobbe molto bene anche il mondo dei bianchi: dopo aver raggiunto il dottorato in medicina all’Università di Boston, a lungo si dedicò alla vana impresa di fare intendere alle autorità americane le ragioni degli indiani. Alla fine gli rimase una lucida disillusione, sentimento che spesso si avverte in questo libro, dove si espongono sobriamente gli elementi di cui è costituita «l’anima dell’indiano», in modo che perfino un bianco possa capirla. Basterà aprire queste pagine per essere subito avvolti dallo hambeday, quella «sensazione misteriosa», che è l’esperienza primordiale dell’indiano, primo segno della sua «comunione solitaria con l’Invisibile». Da quella sensazione discende ogni altro aspetto della sua civiltà, costruzione altamente complessa, austera e illuminata, che qui Eastman illustra con dolce e desolata fermezza. -
Abdia
Fra i grandi scrittori dell’Ottocento, Adalbert Stifter è forse il meno conosciuto fra noi. Sempre più chiaramente appare, con gli anni, che l’opera di quest’uomo che visse a lungo appartato nella provincia austriaca, che vide il mare per la prima volta a cinquantadue anni, a Trieste, che pretendeva di scrivere «trastulli per giovani cuori», è una delle rare opere di cui si può dire, nelle parole di Hofmannsthal, che «nascono da necessità assolutamente sovrapersonali». Non c’è scrittore, ad esempio, che sia riuscito ad assorbire, come lui, storia e metafisica in pure descrizioni di paesaggio. Ciò si applica in modo quasi paradigmatico ad Abdia (1842, versione rivista nel 1847), uno dei suoi racconti più perfetti. Qui una fosca, fatale vicenda si tende fra gli estremi del deserto africano – con il suo «incanto fatto di solitudine e silenzio» – e l’altra solitudine, umida e verdeggiante, di una conca alpina, scoperta dall’ebreo Abdia come terra del più rapinoso esotismo, idillica cerchia dove egli racconterà, passeggiando, alla figlia le fiabe del deserto. Qui, come sempre in Stifter, gli eventi osano presentarsi come «una serena catena di fiori»: ma poiché, di quella catena, soltanto «pochi petali sono stati svelati finora», e le sue lacune sono vaste, un senso di acutissimo allarme accompagna quella visione. L’immenso amore di Abdia per la figlia – una delle raffigurazioni più intense dell’amore che conosca la letteratura – è vegliato da due potenze: il fulmine e l’arcobaleno. Con la stessa indifferenza, con la stessa imprevedibilità, esse portano e sigillano, volta a volta, la grazia e la sciagura. -
La rovina di Kasch
La leggenda della rovina di Kasch narra di un regno africano dove il re veniva ucciso quando gli astri raggiungevano certe posizioni celesti. In quel regno arrivò un giorno uno straniero di nome Far-li-mas, dalla terra di là dal mare orientale. Raccontava storie inebrianti: i sacerdoti, ascoltandolo, dimenticarono di osservare il cielo. Con l'arrivo di Far-li-mas ebbe inizio la rovina dell'antico ordine di Kasch, fondato sul sacrificio. Ma anche il nuovo ordine, dove l'uccisione rituale del re era abolita, sarebbe andato presto in rovina. Rimasero soltanto le storie di Far-li-mas. In questo libro è la Storia stessa, guidata da un accorto cerimoniere, che torna a volgersi verso quelle storie. Il cerimoniere è qui Talleyrand, il più chiaroveggente e il più famigerato, il più moderno e il più arcaico fra i politici. Dando il braccio al lettore, come già lo aveva dato a tante Dame e a tanti Potenti, egli ci introduce a luoghi, voci, gesti, vicende: la Corte di Versailles e l'India dei Veda, l'abbazia di Port-Royal e i portici libertini del Palais-Royal, Maria Antonietta, Bentham, Goethe, Fénelon, Baudelaire, Marx, Chateaubriand, tre sordidi assassini, un bastardo di Luigi XV, un uomo d'armi che si ritira alla Trappa, Napoleone, Joseph de Maistre, Porfirio, Stirner, Sainte-Beuve e molte altre illustri comparse. Ciascuna di queste figure è connessa a ogni altra; e tutte ci riconducono alla stessa origine: la leggenda della rovina di Kasch, quale fu raccontata, circa settant'anni fa, da un vecchio cammelliere; e qui riaffiora in un arcipelago di storie, avvolte, nutrite, invase e cesellate dal mare del tempo. -
Marte in ariete
Questo romanzo non solo racconta unavventura, che oscilla fra il nostro e altri mondi, ma la sua origine stessa è avventurosa. Lernet-Holenia, che era stato ufficiale dellesercito absburgico nella prima guerra mondiale, si trovò a essere richiamato alle armi, questa volta nellesercito tedesco, poco prima dellinvasione della Polonia. Durante i primi mesi di quella campagna, tenne un minuzioso diario. E, appena ebbe una licenza, si mise a scrivere questo romanzo, al cui centro è appunto linvasione della Polonia: sarebbe presto apparso a puntate su una rivista dal titolo frivolo: «Die Dame». Quando però il testo stava per essere pubblicato in forma di libro, e tutta la non piccola tiratura era pronta, un intervento del ministero di Goebbels proibì la diffusione di quellopera sospetta. Due anni dopo, un bombardamento distruggeva tutti gli esemplari del libro, che erano rimasti nel magazzino delleditore. Ma a Lernet-Holenia rimaneva ancora una copia delle ultime bozze: fu quello il testo che finalmente sarebbe apparso nel 1947. Per una volta, i censori erano stati buoni lettori. In queste pagine si legge davvero in filigrana una possente raffigurazione dello sfacelo che i nazisti stavano portando nel mondo. Ma non già perché lautore ricorra a una densa simbolicità, come Jünger nelle Scogliere di marmo. Anzi, con la sua funambolica lievità, con il suo gesto sovrano di mistificatore che introduce al vero mistero, Lernet-Holenia riesce qui ad avvolgere e camuffare i suoi segnali in una aggrovigliata storia damore, che nasce a Vienna e subito ci trasporta in quel «mondo intermedio» dove gli spiriti e i corpi, la vita e la morte, il passato e il futuro amano scambiarsi le parti ed è la vera terra delle sue storie. Immersa in questa realtà irreale, la guerra non perde nulla del suo atroce peso, stagliandosi in immagini incombenti, come una nitida allucinazione. Nessun libro ha saputo raccontarci con tale mirabile precisione il momento sospeso, afoso, immobile che precedette lo scatenarsi delle armi. E ciò avviene proprio perché Lernet-Holenia ha saputo intessere in questo romanzo i messaggi, brevi e ultimativi, di quegli altri regni che «non hanno ambasciatori». La sua arte era quella di vivere sul confine di quei regni e di riuscire così a rendere avvertibile, nelle sue limpide narrazioni, quando «di tanto in tanto qualche piccola parte di essi si stacca per poi arenarsi, come legno galleggiante che giunge da ignoti continenti, ai lidi della nostra percezione». -
Appunti di un guardiano notturno
Il Guardiano Notturno che ci parla in questo libro appartiene alla specie dei «refrattari», esseri inservibili per la società ibanese (della quale il mondo sovietico è un modesto specchio). Con il suo occhio di fantasma maligno, egli osserva lo svolgersi di una vita che non vuole rinunciare, in nessuna sua forma, a produrre l’avvilimento delle persone e delle cose. Ora non c’è più bisogno di ricorrere alle feroci persecuzioni del Padrone (delle quali possiamo farci un’idea leggendo una vita di Stalin). No, ora lo stile ibanese è diverso, più pallido, più quieto, una tortura meno appariscente e ben più prolungata. Il Guardiano Notturno, quale esperto di quella vita, ce ne offre una miniatura avvelenata, dove ritroveremo molti personaggi di Cime abissali. Scritto nel 1975, quando Zinov’ev non era ancora stato espulso dall’Unione Sovietica, questo libro viene a confermare l’assioma ibanese secondo cui «un intellettuale è immancabilmente marcio». -
Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello
Gli idoli sono le vecchie verità cui gli uomini hanno creduto sinora. Socrate, per N. ha corrotto l'anima greca col veleno della ""ragionevolezza a tutti i costi"""". Affronta poi il problema della trascendenza. Riprende anche un tema favorito, la """"morale come contro-natura"""". Successivamente designa gli errori che hanno traviato gli uomini: la confusione tra causa e effetto, il concetto della causalità, il ricorso a cause immaginarie per spiegare le azioni e infine il concetto del libero arbitrio. Nelle notazioni sulla """"psicologia dell'artista"""" N. esalta l'arte come stimolatrice della vita e vede l'""""ebrezza"""" come condizione preliminare di ogni creazione artistica. Predica infine il ritorno alla natura come """"amor fati""""."" -
Gioco all'alba
Lungo racconto, amaro e perfetto, Gioco all’alba (1927) narra la vicenda di una creatura peculiarmente schnitzleriana: Willi, un ufficiale snello, piacente, leggero, che ama la vita e le donne, purché non esigano troppo da lui. Le amanti, il gioco, i colleghi, gli spettacoli, i soldi, le uniformi si alternano nella sua mente in una tenue ma costante fantasticheria, che aggira accortamente gli ostacoli del reale. Ma c’è un momento in cui il destino, come risvegliandosi da una ingannevole sonnolenza, comincia a stringere anche per lui i suoi nodi: da quel momento le ore di Willi precipitano verso un’alba livida e irreparabile. Una lunga partita a carte, con i suoi precedenti e le sue conseguenze, basta qui ad assumere i tratti antichi della fatalità. Le sorti ruotano, le parti si rovesciano, i fatti vorticano intorno al protagonista. Con magistrale colpo di scena, quando la stretta è già divenuta soffocante, Schnitzler fa balenare, accanto al denaro, l’amore, l’uno nello specchio dell’altro. E la reciprocità erotica svela qui il suo volto segreto: quello della più sottile crudeltà. Come in Doppio sogno e Fuga nelle tenebre, che appartengono allo stesso giro di anni, Schnitzler compendia in queste pagine, infallibilmente scandite, tutta la sapienza della sua arte. -
Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale
A venticinque anni, nel 1934, Simone Weil scrisse queste Riflessioni, vero talismano che dovrebbe proteggere chiunque è costretto ad attraversare l’immenso ammasso di menzogne che circonda la parola «società». Come sempre nelle parole più ovvie, in essa si cela una realtà segreta e imponente, che agisce su di noi anche là dove nessuno la riconosce. La Weil è stata la prima a dire con perfetta chiarezza che l’uomo si è emancipato dalla servitù alla natura solo per sottomettersi a un’oppressione ancora più oscura, ancora più capricciosa e incontrollabile: quella esercitata dalla società stessa, poiché «sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso». Da questa intuizione centrale si diparte, con cristallina virtù argomentativa, una sequenza di ragionamenti che svelano nei meccanismi del potere come in quelli della produzione e dello scambio altrettanti volti di una stessa idolatria. Scritto quando Hitler era al potere da pochi mesi e quando Stalin era venerato da gran parte dell’intelligencija come «piccolo padre» di una nuova umanità, questo testo non ha un attimo di incertezza nel delineare l’orrore di quel presente. Ma, come sempre nella Weil, lo sguardo è così preciso proprio perché va al di là del presente e percepisce un’immagine inscalfibile del Bene, in rapporto alla quale giudica il mondo. È uno sguardo che ci induce a «sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo». -
La gattomachia
Come l’avventuroso gatto Marramachiz, a cavallo di una scimmia, volle conquistare la leggiadra gatta Zapachilda, che cantava una «solfa gattesca», sopra le tegole di un tetto; come anche il gatto Micifuf, «per la pompa, la coda ed il vigore / celebre in ogni parte» si perdesse d’amore per Zapachilda; come da ciò nascesse una trama di inganni amorosi, duelli e sanguinosi agguati; come si scontrassero le armate dei due rivali, in una guerra che ripeteva l’assedio di Troia; come infine un casuale colpo d’archibugio abbattesse uno dei due rivali, lasciandolo «lì tra le dure tegole insepolto»: per cantare questa vicenda di alta comicità e tenero strazio occorreva un poeta che, oltre a tutte le corde dell’Umano, conoscesse quelle più segrete del Gattesco. E ci appare naturale che fosse Lope de Vega, lo scrittore più prodigioso per fecondità e facilità d’invenzione nella letteratura moderna, colui che ebbe il verso «più dolce» nella poesia spagnola. Pubblicata nel 1634, questa Gattomachia è un gioiello che potrebbe facilmente perdersi nell’oceano dei versi di Lope (circa un milione, secondo stime prudenti): ma qui la isoliamo nella prima traduzione italiana quale ineguagliato Epos del Gatto. -
Lettere a una gentile signora
"Cara e Gentile Signora"""": così comincia la prima lettera di questo epistolario, scritta il 21 settembre 1935. """"Cara, gentile Signora Lucia"""": questo è l'inizio dell'ultima, scritta ventinove anni dopo. Durante tale periodo, ricco di creazioni e di angosce nella vita di Gadda, la consuetudine epistolare accompagnò i rapporti fra lo scrittore e Lucia Rodocanachi, la """"Gentile Signora"""", mantenendoli a una distanza che per essere giusta doveva essere notevole. Gadda e la Rodocanachi si conobbero alle """"Giubbe Rosse"""", presentati da Montale. Lei era una donna appassionata di letteratura: per anni ricevette amici scrittori nella sua casa di Arenzano, e con loro collaborava spesso come traduttrice. Gadda era attratto dalla """"gentilezza"""" di questa amica, ma la sua invincibile ipocondria lo irretiva in un rapporto dove la deprecazione di se stesso, le scuse e i sensi di colpa trionfavano. Eppure, proprio attraverso tale rete di autoaccuse lievemente maniacali traspare in queste pagine la vita di Gadda, nelle sue delicate oscillazioni: faticosa, ombrosa, tanto più scrupolosa di rispettare le forme quanto più in essa si accumulava una temibile carica di violenza. Nel rapporto fra la """"Gentile"""" Signora e la """"gentilezza"""" di Gadda, qui scandagliata in un saggio di Giuseppe Pontiggia, si celano trappole e inganni che fanno riconoscere in Gadda uno """"dei grandi roditori del mondo borghese"""", che """"se ne nutre mentre continua a scavarlo e cerca di non essere coinvolto nei cedimenti che provoca""""." -
Stalin
Questo libro è il primo che abbia detto alcune essenziali verità su Stalin. E le ha dette così presto, e con tale nettezza, che la sua presenza ha accompagnato come un’ombra gli ultimi vent’anni di vita del capo sovietico, oltre che la sua fortuna postuma. Non solo: le ha dette per bocca di uno storico che era stato uno dei segretari della Terza Internazionale, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese, collaboratore di Lenin, Trockij, Zinov’ev, Bucharin, Radek, Rakovskij, Klara Zetkin, Gramsci, Bordiga, infine amico e compagno di Simone Weil nelle lotte del sindacalismo rivoluzionario in Francia. Souvarine giunse dunque a capire la natura di Stalin e del bolscevismo dall’interno, e da un interno assai intimo, senza però che la sua visione fosse a sostegno di un certo bolscevismo contro un certo altro, come avvenne invece ai molti trockisti che denunciarono i misfatti di Stalin negli Anni Trenta. Souvarine presentò per la prima volta all’Occidente un’immane quantità di fonti e documenti, fino allora ignorati o letti rozzamente: e soprattutto illuminò questo materiale con una lucidità e una fermezza esemplari, che vi facevano risaltare non solo il profilo della persona Stalin ma quello che Souvarine chiamò il «disegno storico del bolscevismo». Pubblicato a Parigi nel 1935, dopo complesse vicissitudini editoriali, lo Stalin di Souvarine ebbe un’edizione ampliata nel 1940 – e infine, nel 1977, dopo lunghi anni in cui il libro era introvabile e ricercatissimo, riapparve nell’edizione che qui si presenta, con l’aggiunta di un capitolo sugli ultimi anni di Stalin e di una preziosa prefazione in cui l’autore ha raccontato la tortuosa storia della sua opera. A Georges Bataille, amico di Souvarine, che gli chiedeva notizie sulle decisioni dell’editore Gallimard riguardo allo Stalin, André Malraux rispose: «Penso che lei abbia ragione e, con lei, Souvarine e i vostri amici, ma sarò dalla vostra parte quando sarete i più forti». Il tempo sembra aver rafforzato in modo inaudito, con le rivelazioni e i fatti che si sono sgranati negli anni, la posizione di Souvarine. Ma non per questo oggi il suo libro si pone dalla parte dei «più forti». Rimane il fatto che rare volte gli eventi hanno a tal punto accentuato l’attualità di un libro di storia contemporanea come in questo caso. Tre decenni prima che il mondo occidentale cominciasse a capire il significato della sigla GULag, Souvarine scriveva: «Se si pensa alle condizioni miserabili dei milioni di deportati, alle masse di forzati maltrattati e ai campi di concentramento nei quali una spaventosa mortalità apre larghi vuoti, ai campi di isolamento e alle carceri gremite, ai milioni di bambini abbandonati fra cui una esigua percentuale riesce a sopravvivere alle esecuzioni capitali e alle spedizioni punitive, in breve alle moltitudini “falciate a larghe bracciate” da Stalin, non c’è da stupirsi davanti agli immensi carnai di questa gigantesca prigione definita con doppia antifrasi “patria socialista”». -
Romanzi brevi: La tela del ragno-Hotel Savoy-La ribellione-Il peso falso
Questo volume raccoglie quattro romanzi brevi, che hanno grande importanza nell’opera di Roth. I primi tre (La tela di ragno, Hotel Savoy e La ribellione) sono quelli con cui Roth si è rivelato come scrittore, fra il 1923 e il 1924, con straordinaria felicità e sicurezza nel cogliere «l’aria del tempo» e, insieme, alcuni dei propri temi essenziali. Il quarto, Il peso falso, che apparve nel 1937, appartiene invece all’ultima stagione di Roth e va considerato – accanto alla Leggenda del santo bevitore e al Leviatano – come uno di quegli apologhi narrativi, in certo modo testamentari, nei quali lo scrittore ha racchiuso il senso segreto della sua opera. Si sfiora dunque, in queste pagine, l’intera tastiera di Roth: c’è il romanzo politico (La tela di ragno, stupefacente prefigurazione non solo del nazismo, ma di tutte le trame occulte che continuano a tessersi intorno a noi); la raffigurazione di un mondo dalle molte voci (Hotel Savoy, dove il protagonista è l’albergo stesso con le sue 864 stanze, luogo affascinante, sordido e misterioso come la vita); la storia di un singolo (La ribellione, in cui troviamo il Roth più aspro, che rifiuta ogni ordine oppressivo); infine la grande visione metafisica (Il peso falso, storia di un verificatore dei pesi e delle misure, che si trova a vivere in un mondo dove tutti i pesi sono falsi). Nei primi romanzi prevale un timbro acido e asciutto, e sul fondo si avverte un pathos di rivolta sociale: sono testi mirabilmente intonati agli anni di Weimar, alla loro torbida caoticità, carica di risentimenti e di violenza. Nel Peso falso, invece, l’occhio di Roth si fissa sui temi perenni della giustizia, della passione e della colpa. E, soprattutto, si sofferma a evocare una sorta di primordiale scenario della sua arte: l’Osteria della Frontiera, dove si aggirano la bella zingara Euphemia e l’infido contrabbandiere Kapturak, dove la legge e il delitto giocano una interminabile partita di tarocchi. In quel luogo di continuo passaggio, che sa di fumo, di alcol e di letti sfatti, dove gli avventori portano quasi sempre nomi falsi, si consuma il destino del verificatore dei pesi e delle misure Eibenschütz. Ma si direbbe anche che a uno di quei tavoli sia stata scritta tutta l’opera narrativa di Joseph Roth, testardamente devota all’inesauribile impresa di «stabilire e verificare ... misura e peso degli eventi». -
Il re e il cadavere. Storia della vittoria dell'anima sul male
Heinrich Zimmer era un grande studioso dell’India, ma in questo libro – forse il suo più affascinante – ha voluto presentarsi come «dilettante fra i simboli». Dilettante significa qui colui che trova un inesauribile diletto nelle immagini, nelle storie che, rampollando di civiltà in civiltà, accompagnano la nostra memoria e, intrecciandosi le une con le altre, finiscono per avvolgerci in una rete che non ci è meno vicina della rete dei nostri nervi. Nodi di quella rete sono i simboli, e questo libro è dedicato appunto a «coloro che si dilettano di simboli, amano conversare con essi e amano vivere tenendoli continuamente presenti». Ai simboli si applica la sentenza delle Upanisad: «L’abbondanza si attinge dall’abbondanza, eppure l’abbondanza rimane». La loro ricchezza non viene intaccata dall’usura del tempo, e nessuna interpretazione riesce a sequestrarla. La loro muta presenza è un continuo invito ad affrontare il «compito interminabile di sondare le acque tenebrose del significato»: di quelle acque Zimmer è un mirabile traghettatore. Guidati da lui, ritroveremo in queste pagine le grandiose intemperanze degli dèi indù ma anche seguiremo la storia dell’avaro Abu Kasem e delle sue maligne babbucce, che non vogliono abbandonarlo, o quella del principe irlandese Conn-eda o le vicende di Lancillotto e Merlino, che qui si dispongono con luminosa precisione nel luogo che a loro è destinato sul manto incantato di Maya: l’uno come immagine dell’Amante, perennemente fedele nella sua infedeltà, l’altro come immagine del Mago, che alla fine preferisce lasciarsi ingannare dalla sua stessa magia. Zimmer non ha certo l’ingenua pretesa di strappare d’imperio il loro segreto a queste storie auguste e beffarde, sa che le storie vogliono innanzitutto continuare a essere raccontate e che, per cogliere il senso dell’Avventura, bisogna abbandonarsi all’avventura della narrazione. Così per questo libro ha inventato una forma peculiare e felice, che è insieme racconto e riflessione, in equilibrio fra una limpida arte narrativa, che ricorda Hofmannsthal, e una sapienza psicologica che accenna a Jung: un delicato, esaltante processo di riappropriazione delle immagini, perché tornino a circolare nelle nostre vene.