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Tingeltangel
«La comicità più singolare che da tempo mai si vedesse sulla scena: una danza infernale della ragione attorno ai due poli della follia»: così Tucholsky presentava l’arte di Karl Valentin. Ogni sera, per lo più nei Tingeltangel bavaresi, locali fumosi, ingombri di sedie e tavolini con lastre di marmo, un pubblico di piccoli impiegati, casalinghe, commercianti applaudiva le apparizioni della sua silhouette allampanata, che subito provocava «un’incessante risata interiore», di una specie però che «non ha nulla di particolarmente bonario». Ma negli anni Venti, mescolati a quel pubblico variegato, si entusiasmavano per Valentin anche esseri così diversi come Brecht e Hesse, Tucholsky e Polgar. La sua «clownerie metafisica» gli aveva fatto inventare, quasi senza accorgersene, ciò che decenni dopo, con qualche pomposità, sarebbe stato chiamato il «teatro dell’assurdo». E le sue «scene» e monologhi, ricamati sull’esasperazione, apparivano come una grandiosa conferma della «inadeguatezza di tutte le cose, compresi noi stessi» (diceva Brecht, ma curiosamente anche Hesse vedeva in Valentin il disvelatore di una radicale «inadeguatezza»). Davanti alla faccia di Valentin, come davanti a quella di Buster Keaton o di Totò, ci sentiamo scossi, al tempo stesso, dalla commozione e dal riso. Ed è difficile guardarlo, o leggerlo, senza essere contagiati dalla sua insondabile perplessità, in cui Polgar riconosceva «un frammento della perplessità ancestrale propria della creatura umana per il fatto di esistere». Scritti in un saporoso bavarese, i testi di scena di Karl Valentin conservano intatta la sua comicità, come una mosca nell’ambra: ne presentiamo qui per la prima volta una scelta dove sono rappresentati i suoi vari generi, dal monologo alla scena a due, alle piccole commedie. -
Dalla gola del leone
Scrive il profeta Amos: «Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d’orecchia, così saranno salvati i figli d’Israele». In questa paradossale immagine di un’esile salvezza tra le fauci della rovina è il centro delle riflessioni di Sergio Quinzio, «credente nella verità cristiana sine glossa», che nelle pagine di questo libro si spinge a «farsi le più difficili domande circa la fede, quelle che non avrebbe mai osato». Nulla di più estraneo, dunque, a quel cristianesimo oggi corrente che si presenta come «rilancio mondano di ogni genere di trionfali sacralità». Qui, al contrario, l’insistenza sulla speranza lungamente delusa, sulla contraddizione non sanata, sul dolore irrecuperabile e sulle devastazioni della morte avvicinano Quinzio al più temerario discrimine: quello fra l’invocazione del Regno e la blasfemia. Simile, qui più che mai prima, anche per la forma spezzata, aforistica, narrante che la sua prosa assume, a certi maestri chassidici, insieme tenerissimi e violenti, che erano pronti a insultare Dio pur di non diminuirne in nulla l’incombente, oscura e impenetrabile maestà, Quinzio ha raggiunto in queste pagine la massima esasperazione dei suoi temi, scrivendo una testimonianza che spicca nella sua solitudine. -
Elogio funebre del generale August - Wilhelm von Lignitz
Esimio stratega alla perenne ricerca di una «metafisica della guerra», il generale von Lignitz viene qui celebrato in un discorso che si immagina tenuto nel 1821 da un cappellano militare. Allevato alla grande scuola militare prussiana, e perciò intriso di quella concezione dellAssolutismo che vede tutto come un immenso orologio e così stabilisce «una relazione inumana e meccanica dal monarca allultimo dei suoi granatieri», Lignitz comincia presto ad avvertire che il mondo si trova sulla soglia di una «nuova era», che gli si rivelerà poi sul campo di battaglia di Valmy. È lera in cui la guerra non sarà più il luogo dove si scontrano impeccabili deduzioni in forma di schiere rivestite da sontuose uniformi, ma il «luogo del demoniaco», il «luogo dellazzardo», che irride ogni ordine prestabilito e lascia proliferare nuove figure, nuovi incubi: la guerriglia, la guerra illimitata, il «culto della volontà», linsurrezione. Insieme affascinante racconto e lucidissimo saggio, dove vedremo profilarsi molte ombre illustri da Clausewitz a Kutuzov, da Goethe a Napoleone, da Gneisenau a Hoffman , questo testo è anche un apologo corrosivo rivolto al presente, in quanto lo riconduce alla più delicata delle suture, che non si è mai chiusa, che forse non potrà mai chiudersi: quella fra gli squillanti proclami di Ordine, Ragione e Trasparenza lanciati dallIlluminismo e la replica di Caos, Oscurità e Azzardo che la storia cominciò a manifestare negli anni di Napoleone e del Romanticismo tedesco. Una replica che non si è mai più interrotta. Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz è apparso per la prima volta nel 1973. -
Voce dietro la scena. Un'antologia personale
Non solo grande critico ed erudito, ma saggista nel senso della più alta tradizione inglese quella di Lamb e di De Quincey , viaggiatore, memorialista, narratore, Mario Praz ha composto in questo volume una sua «antologia personale», raccogliendo testi dai caratteri più diversi, da lui scritti nellarco di più di cinquantanni (1945-1975). Ne è risultato un libro che forse un giorno apparirà come il suo più felice in assoluto. Qui, come anche nella Antologia personale di J.L. Borges, i testi assumono una nuova patina, per opera del loro nuovo contesto, intridendosi di un fascino penetrante e peculiare: quello dellautoritratto. Come Praz ha voluto precisare nella prefazione a questa «antologia», egli sente di appartenere alla «categoria di persone dotate dintelligenza imperfetta», quelle scriveva Lamb che «si contentano di frammenti e di ritagli della Verità», che la colgono solo «con un lineamento o di profilo tuttal più», perché «le loro menti sono meramente suggestive». Ma i «frammenti» e i «ritagli della Verità» che Praz è venuto accumulando nella sua davvero prodigiosa attività, rivolta nelle più svariate direzioni, formano una compagine imponente. Da essa Praz ha distaccato i tanti, perfetti tasselli di questo «autoritratto», col quale è riuscito a compiere unimpresa assai ardua: applicare a se stesso la stessa chiaroveggenza critica che ha reso celebri tante sue ricerche, giocate sulle risonanze e sulle filiazioni. Così, leggendo queste pagine non solo si avrà la sorpresa di scoprire molti testi dispersi e spesso ignorati (per molti saranno qui del tutto nuove certe affascinanti prose narrative, che hanno avuto una circolazione molto ridotta rispetto ai libri di critica), ma si osserverà il lento diramarsi delle linee di una vita. Ed è questa la «voce dietro la scena» a cui allude il titolo. Nel percorrere questo vasto «museo di simpatie e differenze» (Borges) siamo come attirati da un suo disegno segreto, che neppure lautore conosce eppure guida la sua mano. È lo stesso fascino della «voce dietro la scena», che «non manca mai defficacia perché gli uomini sentono che cè un canto dietro la scena della loro vita stessa», anche se di esso a mala pena «afferriamo la rima». -
Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767)
Quando, il 2 ottobre 1766, Cesare Beccaria partiva da Milano alla volta di Parigi, la recente fama di Dei delitti e delle pene aveva raggiunto dimensioni impensate, attirando sulla piccola compagnia dei riformatori lombardi lattenzione dellintera Europa. Linvito a recarsi nella capitale delle nuove idee, firmato da Diderot e dAlembert, fu accolto anche dal più giovane rappresentante della cerchia del «Caffè», Alessandro Verri. Dal giorno della partenza il compagno di viaggio di Beccaria dà inizio a una fitta corrispondenza con il fratello Pietro, trattenuto a Milano da importanti impegni amministrativi. Il carteggio, che si sarebbe dovuto esaurire nel giro di sei mesi, proseguì invece per oltre trentanni: da Roma, ultima tappa del «viaggio dItalia» programmato prima del ritorno a Milano, Alessandro (innamorato prima e succubo poi dellaffascinante, ossessiva marchesa Boccapadule) non si muoverà più se non per brevi periodi; rivedrà Pietro solamente nellottobre del 1789, sulle porte del palazzo paterno, quasi non riconoscendolo. Questo «viaggio a Parigi e Londra», costituisce dunque la prima fase, e forse la più scintillante e sorprendente, di un vasto carteggio che è unanimemente considerato il maggior documento epistolare del Settecento italiano. A parte limmenso interesse del testo in rapporto alla storia della cultura, ciò che spicca subito alla lettura di queste pagine è la felicità letteraria: con un linguaggio nervoso, modernissimo, talvolta insolente, il giovane Verri tratteggia un vero romanzo di avventure intellettuali e insieme una trascinante commedia mondana. Tema di entrambi è la scoperta delle due grandi metropoli settecentesche da parte di un giovane dallo sguardo acuto e dallo spirito pronto, giunto dalla periferia al centro dellimpero dei Lumi. Gli enciclopedisti ci vengono così presentati in una galleria di animati, minuziosi, idiosincratici ritratti; ma Alessandro Verri è anche abilissimo nel rendere il tono dei salons o le vicissitudini, spesso involontariamente comiche, dellangustiato Beccaria o i piccoli incidenti quotidiani infine nel darci tutto il sapore della vita in un momento fra i più felici della storia europea. Egli è un perfetto osservatore della scena della société, e si muove a suo agio, con un atteggiamento dove si mescolano lo stupore e limpertinenza giovanile, entro «questi gran vortici formati dalle vive e tumultuose passioni duna immensa moltitudine condensata in recinti di mura», là «dove tutto è o aimable o charmant, o detestable et effroyable». Sottile e affascinante è poi il rapporto che si stabilisce tra i due fratelli: Alessandro, impulsivo, leggero e vitale da una parte; e Pietro, curioso e attento, che segue il viaggio del fratello in veste di occulto regista, muovendolo come una pedina su una scacchiera di politica intellettuale. «Io voglio dire tutto» scriveva Alessandro a Pietro, appena arrivato a Parigi. A questa sua vorace franchezza dobbiamo unopera che merita di essere accolta fra i libri più vivi della letteratura italiana. Mai pubblicato sinora in unedizione adeguata, questo Carteggio appare qui, per le cure di Gianmarco Gaspari, in un testo filologicamente rigoroso e accompagnato da un vasto e puntuale commento, teso innanzitutto a mettere a frutto le fonti contemporanee, edite... -
Il regno segreto
Un oscuro ministro presbiteriano scozzese, Robert Kirk, scrisse verso la fine del Seicento questa incantevole, incantata guida al «regno segreto» dei fairies – e dunque delle fate, degli elfi, degli gnomi, dei coboldi e di tutte le altre specie che appartengono a quelle «aeree tribù». Usando la sobrietà dei grandi etnologi e il tono familiare, pacato di chi racconta di cose con le quali ha avuto a che fare per tutta la sua vita, Kirk voleva innanzitutto trasmetterci una descrizione precisa e fedele degli esseri di quel mondo, delle loro abitudini e del loro modo di intervenire nella nostra vita. Solo così, egli sperava, si potevano dissipare molti pregiudizi: primo fra tutti quello che il «regno segreto» non esistesse e che quel «popolo quasi sempre invisibile» fosse un banale frutto dell’immaginazione umana, mentre la quotidiana esperienza ci vuol dimostrare il contrario. Che cos’è infatti l’inquietante, ciò che ci fa fremere di orrore o di attrazione, se non – ogni volta – uno dei tanti «tentativi benevoli» con cui quelle «creature nostre sorelle» ci avvertono che, oltre al nostro mondo, esiste anche quello del «popolo nascosto» per il quale «lavoriamo tanto quanto per noi stessi»? E i non pochi che hanno l’ambiguo dono della «seconda vista» non sono forse semplicemente coloro che sono sempre accompagnati da «un raggio come quello del sole», il quale permette di vedere in ciascuno degli «atomi» sospesi nel pulviscolo dell’aria un abitante della «città sotterranea pervasa da una luce verde»? Kirk allinea con dolcezza, ma con determinazione, i suoi argomenti. Egli nutriva infatti una fede soave nel progresso, e ben sapendo che «ogni epoca ha qualche segreto lasciato da scoprire», sognava però che un giorno finalmente i rapporti fra noi e i fairies sarebbero stati «liberamente esercitati e tanto bene conosciuti come sono l’arte della navigazione, la stampa, le armi da fuoco, il cavalcare a sella con la staffa e le scoperte dei microscopi, che una volta suscitavano altrettanta meraviglia ed era altrettanto difficile farle credere». Dopo più di due secoli e mezzo il manoscritto di Kirk ha trovato il suo primo adeguato decifratore e commentatore in Mario Manlio Rossi. Con estro sapiente e acume erudito, Rossi ha cercato e trovato le tenui tracce dell’esistenza del «cappellano delle fate», individuando anche finalmente il manoscritto originale del Regno Segreto. Infine ha dedicato a quel testo un lungo saggio, dove attraverso le teorie e gli esempi di Kirk sui nostri rapporti con i fairies veniamo ricondotti al centro di una vasta e oscura area della cultura moderna europea: quella delle dottrine (e delle pratiche) dell’occulto, dei processi alle streghe (e di fatto l’intenzione di Kirk era innanzitutto quella di sottrarre coloro che hanno rapporto con i fairies al sospetto di stregoneria), della vana lotta della scienza contro le fate. Perché alla fine, come Rossi dimostra con scintillante consequenzialità, «sono le fate a rivelare l’inconsistenza della scienza empirica». -
La principessa smarrita
Nachman di Breslav, uno dei grandi maestri del chassidismo, sosteneva che «ogni sapienza che esiste al mondo ha un suo canto particolare». Così, per lui, quel canto non si sarebbe manifestato in brevi aneddoti e sentenze, come per i Rebbe che lo avevano preceduto, ma innanzitutto in forma di fiabe. Principesse e cavalieri, re e saggi, demoni e briganti: le perenni figure della favola dovevano servire, sulla sua bocca, a suscitare nulla di meno che la redenzione per mezzo dei racconti. Come il suo avo Baal Shem Tov, leggendario fondatore del chassidismo, «quando vedeva che i canali superiori si erano deteriorati e non era possibile ripararli con la preghiera, li aggiustava e li univa raccontando una storia», così Nachman ricorre alle «storie che la gente racconta» perché esse racchiudono «molte cose nascoste e molte cose elevate», anche se disperse e confuse come le scintille del divino nel mondo. Gli elementi delle fiabe di Nachman sono dunque quelli della letteratura profana: ma il procedere delle sue storie ci avverte che ciascuna di esse ha una dimensione occulta. Labirintiche, sconcertanti, corrusche come osservò Nathan, il discepolo che le trascrisse ci avvicinano a «sentieri ignoti e terribili profondità». Esse ci appaiono «come uno che gesticola da lontano per mostrare fino a dove le cose possono arrivare». E già questo gesto, nella sua silenziosa evidenza, ci può suggerire perché da anni Nachman sia definito «il Kafka del chassidismo». Pur appartenendo a due mondi opposti, luno sovrabbondante e laltro svuotato di fede, Nachman e Kafka hanno in comune almeno una parte, molto peculiare e penetrante, del loro «canto». Entrambi sono maestri nel raccontare gli eventi più meravigliosi e tremendi come si trattasse delle storie più semplici e quotidiane. Entrambi sanno raccontare i fatti più normali trasmettendoci attraverso di essi, quasi fosse un brivido, lallusione a una realtà ulteriore, meravigliosa e tremenda. Pronipote del Baal Shem Tov, Nachman (1772-1810) rivelò prestissimo la sua vocazione. Ancora bambino, si immergeva nel ruscello gelato davanti alla sinagoga per provare la sua fede. Adolescente, si lasciava trascinare da una barca fra i canneti per isolarsi nella preghiera e «ascoltare la canzone dellerba». Quando cantava e ballava, fu detto di lui: «chi non lo ha visto ballare non ha visto alcunché di buono nei suoi giorni». Dopo un avventuroso pellegrinaggio in Terra Santa, fra le tempeste e i cannoni di Bonaparte, distrusse i suoi scritti precedenti al viaggio e diede inizio a un insegnamento che provocò sconcerto e scandalo. La parte più preziosa di tale insegnamento è racchiusa nelle fiabe dei Sippurè maasijot, qui tradotte dallebraico per la prima volta al mondo nella loro integrità. Alla traduzione del testo, Giacoma Limentani e Shalom Bahbout hanno fatto seguire il lungo saggio Nachman il narrastorie, che illumina la singolarità di Nachman allinterno del chassidismo, ci guida lungo il tortuoso percorso della sua vita e ci mostra i rapporti fra il suo insegnamento e la Kabbalà. -
Il messaggio dell'imperatore
Il messaggio dell’imperatore è la prima e più celebre raccolta di racconti di Kafka che sia apparsa in Italia. Il volume contiene i seguenti testi: La condanna; La metamorfosi; Il nuovo avvocato; Un medico condotto; In galleria; Una vecchia pagina; Sciacalli e Arabi; Una visita nella miniera; Il prossimo villaggio; Il cruccio del padre di famiglia; Undici figli; Un fratricidio; Un sogno; Una relazione accademica; Nella colonia penale; Primo dolore; Una donnina; Un digiunatore; Josefine la cantante; La costruzione della muraglia cinese; Intorno alla questione delle leggi; Lo stemma della città; Delle allegorie; La verità su Sancio Pancia; Il silenzio delle sirene; Prometeo; Il cacciatore Gracco; Il colpo contro il portone; Un incrocio; Il ponte; Piccola favola; Una confusione che succede ogni giorno; Il cavaliere del secchio; Una coppia di coniugi; Il vicino; La tana; La talpa gigante; Indagini di un cane. «L’imperatore – così dice la leggenda – ha inviato a te, singolo individuo, miserabile suddito, ombra minuscola fuggita dall’abbagliante sole imperiale nelle più remote lontananze, proprio a te ha inviato un messaggio dal suo letto di morte». - Franz Kafka -
La nostra anima
I due lunghi racconti che compongono questo volume – La nostra anima e Il signor Münster, fra i più felici e temerari del Savinio narratore – possono essere letti come un dittico sulle metamorfosi dell’anima, dove l’omaggio alla solennità del tema è dato proprio dalla delirante, oltraggiosa comicità del tono. Nel primo, fino a oggi quasi ignoto perché pubblicato nel 1944 in un’edizione numerata di trecento esemplari, Psiche appare al giovane Nivasio Dolcemare in un «museo di manichini di carne», a Salonicco. Accosciata sul fondo di una fetida stanza che sembra la gabbia di uno zoo, la «nostra anima» è una fanciulla nuda con testa di pellicano. La sua pelle è tutta incisa dalle frasi dei visitatori, come un rudere. E, quando Nivasio-Savinio ascolterà la sua voce, gli sarà e ci sarà rivelata una nuova, stupefacente e cruda versione del mito di Eros e Psiche: in questo caso la vicenda matrimoniale di una delle tre sorelle Falpalà, poi «nostra anima» esposta al pubblico quale archetipo animalesco. Dopo l’anima e l’amore, l’anima e la morte, ai cui misteriosi rapporti ci introduce Il signor Münster, scritto in quegli stessi anni di guerra che furono forse i più fecondi per Savinio. E qui troveremo, nella gabbia della sua casa, il signor Münster, questo «bambino prolungato» in cui è facile riconoscere uno stupendo autoritratto di Savinio, travolto in una vorticosa sequenza di metamorfosi: prima ritiene di essere morto, poi rompe gli specchi della casa, poi sente di trasformarsi in anima, poi ha grandiose visioni, poi si traveste da donna... Alla fine lo vedremo inseguire un’Aurora imbellettata, attempata ed equivoca, che sguscia da un portone di via del Babuino. -
Giornale di bordo dell'aeronauta Giannozzo
Giannozzo, briccone romantico, viene preso dal desiderio di un’ascensione in mongolfiera al solo udire la parola revenant. «Qualcuno la pronunciò per caso davanti a me: io immaginai la gioia ineffabile di essere un fantasma». Spiegate le «azotiche ali» della sua mongolfiera, munito di un piccolo corno da postiglione e di un binocolo da guerra, Giannozzo si libra sui minuscoli Stati della Germania alla fine del Settecento: le città gli appaiono come «banchi di ostriche», abitate da figurine di piombo, semplici comparse, «provinciali senza spirito né religione». Con improvvise incursioni l’aeronauta getta lo scompiglio in quelle terre: libera pipistrelli dalle sue tasche durante un pranzo di Corte, spia incontri amorosi dall’occhio di una rotonda, esorta beffardamente alla coerenza gli abitanti di una lugubre cittadina di esemplare produttività, perché innalzino lo Stato «al punto da diventare una vera e propria casa di pena e di lavoro» – e poi risale sulla sua navicella. È l’eterno trickster, il «briccone divino», che qui si reincarna in Giannozzo, cosmico voyeur di tutti i «teatri della vita», patinato di ironia romantica. Ma l’età moderna non tollera a lungo tali agenti del disordine mercuriale, che obbediscono a un solo precetto: «Lo scherzo è inesauribile, la serietà no». E l’euforia del volo si mescola fin dall’inizio con il presagio pungente della catastrofe. Jean Paul, come Sterne, è un «guardiano della soglia», che segnala l’ingresso a tutta la letteratura moderna. La sua prosa, colma di estri geniali, straripante di metafore, è un preludio a tutte le audacie che verranno – e il Giannozzo, nella perfetta misura del suo incantevole farneticare, potrebbe esserne il simbolo. -
Squartamento
Metafisico solitario, Cioran ha il dono, oggi improbabile più che mai prima, di mimetizzare il suo pensiero in un tono di superiore conversazione. Rumeno, da decenni a Parigi, scrive il francese più bello che si possa leggere. Da anni nelle sue pagine rintoccano le cose terribili, non medicabili: ma la lettura dei suoi libri è, per paradosso, corroborante; dalle sue parole si sprigiona una specie singolare di serenità. Dopo che la coazione storicistica ci ha disgustato della storia, Cioran riesce ad avvicinarci al passato per una via opposta: quella dell’insaziata curiosità, dell’occhio che cerca ovunque strane piante umane, obbedienti a leggi occulte di crescita e di decadenza. Infine Cioran è l’ombra che ci accompagna nella realtà di ogni giorno e la folgora nella sua smorfia perenne. Questo «filosofo squartatore» riesce ad essere al tempo stesso uno «squartatore misericordioso», come scrive Ceronetti nel presentare – da affine ad affine – questo libro. Cioran conosce la precaria eleganza dell’Occidente, la sua leggerezza autodistruttiva e gli dèi che ha dimenticato. Contempla l’interminabile fine della storia, l’angoscia cieca del mondo per l’esaurirsi delle sue «riserve sostanziali d’assoluto», le uniche – nelle loro molteplici metamorfosi – che permettano di continuare a vivere. Impaziente di ogni cornice sistematica, di ogni pretesa di rassettare il caos, Cioran ama presentarsi in due forme che in questo libro appaiono felicemente giustapposte: quella del breve saggio, itinerario da un ignoto a un ignoto, solcato da continui barbagli, che possono investire Saint-Simon o l’epistemologia buddhista o il moderno «delirio dell’atto», e ogni volta di una luce definitiva; e quella dell’aforisma, dove la sua prosa opera una delicata, magistrale torsione di una incombente tradizione francese. Dati questi caratteri, e in particolare il salutare disprezzo verso tutte le buone intenzioni che aprono la via all’oppressione e all’ottundimento, non può non essere incompatibile con Cioran lo «stuolo infinito degli intelligenti non illuminati», che riempiono il mondo. Ma ormai molti altri sono giunti a riconoscere in Cioran uno dei rari scrittori essenziali del nostro tempo. Nelle parole di Ceronetti: «Un metafisico. Ma non distante, non eterico, non enigmatico: un amico. Un antidoto contro le stregonerie, contro le intossicazioni del secolo. Leggerlo è avvertire la presenza di una mano tesa, afferrare una corda gettata senza timidezza, avere alla propria portata una medicina non sospetta». -
Favole della vita. Una scelta dagli scritti
Peter Altenberg apparve nella Vienna fine secolo come una strana pietra caduta dal cielo, ma composta di materiale affine al terreno su cui era capitata. Karl Kraus e Hugo von Hofmannsthal, allora giovanissimi e già del tutto opposti, concordarono però subito nel riconoscerlo e onorarlo: entrambi sentirono fin dall’inizio il suono giusto di Altenberg, nei suoi vividi schizzi, nei suoi romanzi che durano pochi secondi, nelle sue arabescate divagazioni, nel suo «stile telegrafico dell’anima». I libri di Altenberg si presentavano come la somma di tanti foglietti, per lo più vergati rapidamente al caffè, che dovevano contenere altrettanti «estratti di vita». Il dono più evidente che mostravano era l’immediatezza, la capacità di evocazione istantanea. Ma era solo una certa vita, certi luoghi, certe scene, certi personaggi che facevano vibrare quella prosa: un lungolago abbandonato o il giardino di un caffè concerto, una bambina stupenda e annoiata accanto ai genitori, un pianoforte che suona dietro una finestra aperta, una soubrette dalla inesplicabile grazia, una conversazione fatta di inezie che sottintendono cose terribili, un punto del Prater, la fotografia di una ragazzina nuda... In tutto questo Altenberg riconosceva quella zona della vita a cui egli stesso totalmente apparteneva: il suo eccesso inutile, la sua schiuma iridata. Come eterno feticista e cantore di quella vita, che sempre più minacciava di essere soffocata dallo «strisciante ‘necessario’», Altenberg sedeva per ore al caffè, lanciava fulmini di condanna ed enormi insolenze, si confidava con vetturini e prostitute, adorava fanciulle che dovevano restare mute per non guastare l’incanto. Chi lo conobbe, chi lo ammirò in quegli anni – e non solo Kraus e Hofmannsthal, Polgar e Loos, dei quali pubblichiamo qui le memorabili testimonianze, ma anche Alban Berg, che mise in musica alcune «cartoline illustrate» di Altenberg – ci ha lasciato di lui immagini di una eccentrica grandiosità. «Non c’è punto fermo migliore di questa inattendibilità» scriveva Kraus. Nella costellazione della «Vienna del linguaggio», Altenberg è l’elemento più imprevedibile e stravagante, lo scrittore che non sondava alcuna «crisi dei fondamenti» se non quella della vita stessa, di cui sempre si mostrò eccessivamente innamorato, come soltanto può un «invalido della vita», tarlato dall’ipocondria e dall’angoscia. Ma la sua voce affascinò totalmente i suoi celebri amici, e continua ad affascinarci oggi, come quella di una irriducibile infanzia. Hofmannsthal lo avvertì: «Sentirsi bambini, comportarsi come bambini è l’arte commovente degli uomini maturi». -
Umano, troppo umano. Vol. 2
Scritti in poco più di un anno, le Opinioni e sentenze diverse e Il viandante e la sua ombra (riuniti nell’edizione del 1886 col titolo di Umano, troppo umano, II) sono testimonianze, nell’attività di Nietzsche, di un ripiegamento su se stesso: è uno stato d’animo ciclico nella sua vita, anche se talora viene mascherato, come in questo caso. Le cose non lo sospingono e gli uomini lo hanno lasciato solo, cosicché l’autore può interessarsi più di se stesso, come fa qui il viandante, costretto a parlare con la propria ombra. Discorrendo con sé, si parla più facilmente di sé. Questo fatto tuttavia non appare in primo piano, e il lettore si trova di fronte a concreti argomenti di storia, arte, morale, com’era naturale, del resto, perché nell’opera di Nietzsche questo risulta il periodo più imparziale, scientifico, obiettivo. Tale oggettività è però raggiunta paradossalmente, ossia attraverso una concentrazione e una speculazione interiore. Lo dice chiaramente egli stesso: «Il mio modo di riportare le cose della storia consiste propriamente nel raccontare ""esperienze"""" personali, prendendo a spunto epoche e uomini del passato. Non è qualcosa di organico – solo cose singole mi si sono chiarite, altre no. I nostri storici della letteratura sono noiosi, perché si impongono di parlare e di giudicare di tutto, anche dove non hanno """"vissuto""""»."" -
Enten Eller. Vol. 4: Un frammento di vita.
Questo quarto tomo di Enten-Eller può considerarsi un testo del tutto nuovo per il lettore italiano. Qui, nella mirabile struttura dialogica dell’opera, assistiamo a un mutamento dei ruoli: non parla più la voce di A, l’Esteta, le cui divagazioni compongono la prima parte di Enten-Eller, ma quella di B, il giudice Wilhelm, portavoce dell’etico, che ad A replica con altro stile, con nuovi argomenti. E proprio a questo punto appariranno in definitiva evidenza due peculiarità di quest’opera geniale: innanzitutto la sua rinuncia alla voce unica che trasmette un unico pensiero, quale appartiene alla tradizione della filosofia moderna, per accedere invece alla pluralità delle voci che dicono molteplici pensieri, compresenti e ugualmente legittimi. La seconda peculiarità è quella di evitare la tematica classica della teoria della conoscenza per camuffarne gli interrogativi dietro occasioni che appartengono all’esistenza quotidiana: in questo caso la discussione sul matrimonio, qui difeso da B in una replica che in realtà è un nuovo capitolo dell’antica disputa fra l’immediatezza e la mediazione, fra il «vivere di preda» dell’estetico e la riflessione dell’etico. Ma questo camuffamento della metafisica nella vita quotidiana – vero senso di una «filosofia dell’esistenza» che qui mette alla prova per la prima volta le sue categorie –, permette a Kierkegaard anche un’altra impresa: condurre in parallelo una rinnovata, mordente critica di quell’epoca, la sua e la nostra, che «si dichiarò sia per l’amore in modo che venisse escluso il matrimonio, sia per il matrimonio in modo che si rinunciasse all’amore». -
Le bizze del capitano in congedo e altri racconti
Carlo Emilio Gadda pubblicò i suoi scritti in modo frammentario: molti apparivano a distanza di anni dalla stesura, altri rimanevano abbandonati in riviste e giornali. Oggi che la figura di Gadda si rivela sempre più dominante nella letteratura italiana del nostro secolo, la sua opera ci riserva ancora molte sorprese. In questo volume Dante Isella ha riunito otto racconti finora dispersi in varie riviste e pubblicazioni (fra il 1920 e il 1972), quindi pressoché ignoti. Sono testi spesso di altissima qualità, nei quali Gadda opera soprattutto su due registri. Il primo è quello grosso modo autobiografico, dove lo vediamo lanciarsi in trascinanti elucubrazioni esemplificate innanzitutto dalle «bizze» del racconto che dà il titolo al libro, rivolte «contro Semiramide, lo sciacquone, i cilindri zincati, larchitetto Gutierrez e il fisico Wollanston» o, altrove, in esilaranti divagazioni, come quella sullarchitettura brianzola, dove si sente pulsare tutta la furia compressa del Gadda lombardo. Il registro giallo-poliziesco, invece, è rappresentato da un singolarissimo, fosco racconto, La passeggiata autunnale, che risulta essere la prima prosa narrativa di Gadda, seguìto da un intero capitolo escluso dal Pasticciaccio e da una magistrale storia di truffa allitaliana, narrata con la concisione dellepigramma. Completa il volume una Bibliografia che rende conto di tutta la varia, dispersa collaborazione di Gadda a giornali, riviste e altre pubblicazioni occasionali. -
La veranda
La storia di questo romanzo è essa stessa romanzesca. Scritto presumibilmente fra il 1928 e il 1930, quando Satta era un giovane avvocato intorno ai venticinque anni, il manoscritto fu presentato a un premio letterario. Uno dei giudici, Marino Moretti, se ne entusiasmò, tanto da pensare di aver scoperto una controparte italiana della Montagna incantata di Thomas Mann. Ma la giuria del premio non accolse la sua proposta, innanzitutto per la scarsa ‘sanità’ del romanzo, che lo rendeva improponibile – scriverà Moretti – «al troppo delicato, al troppo sensibile, al troppo spaurito pubblico italiano». Così La veranda non fu pubblicato. Passarono molti anni, Moretti smarrì la sua copia del manoscritto, Satta divenne un celebre giurista, infine scrisse Il giorno del giudizio, romanzo che sarebbe apparso dopo la sua morte, accolto come un grande libro e tradotto in varie lingue. Poi, all’inizio del 1981, il manoscritto della Veranda riappare in modo del tutto accidentale: era custodito nella cartella dei documenti di una causa. La «veranda» a cui accenna il titolo è quella di un sanatorio, nell’Italia settentrionale, dove è ospite il protagonista, un giovane avvocato. Intorno a lui non vi sono borghesi colpiti dal male canonico, ancora in quegli anni, per gli esseri sensibili, ma un campionario di relitti, provenienti dalle più varie zone d’Italia. Si ritrovano ogni giorno nella veranda del tubercolosario, uniti da una comunanza nella noia e nella paura. Non si chiamano neppure per nome, ma con quello delle rispettive città, come commilitoni della morte. È un mondo a parte, con i suoi riti, il suo gergo, le sue vittime, i suoi intrighi. Ed è anche il mondo in genere, ridotto alla miseria e ai sogni. Già dominato dalla tenebrosa visione che, a distanza di vari decenni, si dispiegherà nel Giorno del giudizio, Satta ci avvolge totalmente in quel mondo, con precoce sicurezza di narratore, disegna alcune figure memorabili, come quella di Melanzana, un pover’uomo che non riesce a morire ed è diventato il genio tutelare del luogo, e soprattutto ricrea con desolata asciuttezza una condizione sospesa, di «offensiva confidenza con la morte». Anche la storia d’amore che si intesse fra il protagonista e una malata del reparto femminile è oppressa da un senso di precarietà e terrore. Se pensiamo ai romanzi italiani di quegli anni, questo primo libro di Satta si distacca subito per la sua crudezza nell’avvicinare la realtà dolorante e insieme per il cupo lirismo che sottende l’evocazione. -
Fuga nelle tenebre
Nella Fuga nelle tenebre, che fu pubblicata nel 1931, poco prima della morte dell’autore (ma la stesura originaria è degli anni 1912-1917), Schnitzler raggiunge la massima intensità di narratore. La storia è quella della graduale, consequenziale germinazione di un delirio. Qui il racconto non è, come sempre in Schnitzler, cosparso di accenni al fondo oscuro della psiche, ma in certo modo costringe quel fondo ad apparire in primo piano, sotto una luce fredda e limpida. Insediati all’interno della psiche del protagonista, assistiamo al primo infiltrarsi in essa di una serie di presentimenti e ammonimenti, che subito fanno oscillare tutta la realtà, gettandola in un’incertezza simile a quella dei sogni. Poi, in una progressione sempre più angosciosa, ci accorgiamo che ormai una rete di ossessioni si è posata sul mondo. A poco a poco, le sue maglie si stringono crudelmente e tutto ciò che avviene converge verso un unico punto di fuga: le tenebre. Come i cinque casi clinici di Freud appartengono, oltre che ai testi classici della psicoanalisi, alla grande letteratura del nostro secolo – sicché Dora e l’Uomo dei lupi e il piccolo Hans si sono ormai allineati accanto ai personaggi di Balzac e di Dostoevskij – così questo stupendo racconto di Schnitzler va anche letto come un’analisi dell’insorgere di un delirio ossessivo, sbalorditiva per la sua nettezza, illuminante in ogni particolare, avvicinabile solo ai grandi testi di Freud. E la figura di Freud stesso sembrerebbe qui adombrata in uno dei personaggi: il dottor Leinbach, «spettatore molesto e filosofo». -
La mente prigioniera
«Questo libro fu scritto a Parigi nel 1951-1952, cioè in un periodo in cui gli intellettuali francesi, nella loro maggioranza, risentivano la dipendenza del loro Paese dall’aiuto americano e riponevano le loro speranze in un mondo nuovo all’Est, governato da un leader di incomparabile saggezza e virtù – Stalin». Così Miłosz, con delicato sarcasmo, ha descritto, nella premessa all’edizione italiana, la situazione in cui nacque e apparve per la prima volta La mente prigioniera (1953). Ma al lettore spetta di riconoscere che cosa è questo libro oggi: il libro che una volta per tutte, prima che il dissenso russo potesse manifestarsi, prima di Solženicyn, di Sinjavskij, di Zinov’ev, disse ciò che di essenziale vi è da dire sul sovietismo – e in particolare su quel colossale fenomeno di viltà dello spirito e cronico asservimento che ha contrassegnato il rapporto di milioni di intellettuali con il sovietismo stesso. A differenza di tanti dissidenti russi, Miłosz parla con una terribile pacatezza: troppo cupa è la vicenda che ha vissuto perché la sua voce possa alterarsi. Ed è la voce, lo si sente a ogni pagina, di un grande scrittore, di un abitante di quella vecchia, civilissima Europa dei popoli baltici, che furono «calpestati dall’elefante della Storia» senza che l’Occidente quasi se ne accorgesse. Questo libro non è un saggio, non è un racconto, non è un libro di memorie: è la dimostrazione inconfutabile, trasparente, di che cosa voglia dire nella vita di ogni giorno, per un numero sterminato di persone, l’obbedienza al Metodo, nome che qui designa il marxismo-leninismo, quella singolare dottrina che è «in grado di trasmettere per via organica una 'visione del mondo'», come le pillole di Murti-Bing immaginate dal genio visionario di Witkiewics. Se fosse una qualsiasi posizione filosofica, tale dottrina sarebbe di una pochezza difficilmente uguagliabile. Ma esso è ben di più: un grandioso artificio che riesce davvero a «cambiare la vita»: il Metodo, una volta che stringe un mondo con le «tenaglie della dialettica», permette a chiunque di sorridere con superiore indulgenza di fronte a qualsiasi pensiero, invita dolcemente a sorvegliare e denunciare gli altri, insegna inebrianti misture di vero e di falso, concede la gioia di sentirsi al centro della corrente della storia e offre strumenti maneggevoli per far fuori i propri nemici. Alle devastazioni che il Metodo provoca nei singoli, alle prodigiose trasformazioni che esso produce nelle loro vite è dedicata la seconda parte del libro di Miłosz: qui egli traccia una sequenza di profili esemplari, carichi di intensità romanzesca – e costringe ogni lettore a percepire che cosa sia stata, in tutti i suoi passaggi, la sorte crudele di chi ha visto susseguirsi, sulla propria terra, il furioso orrore dei nazisti e la vischiosa oppressione dei sovietici. La rivolta di Varsavia, con i nazisti che uccidono e i sovietici che osservano compiaciuti dall’altra sponda della Vistola, è in certo modo l’esperienza simbolica di tutto il nostro secolo. Miłosz, che a essa è dolorosamente sopravvissuto, ha saputo trasmetterla in queste pagine a noi, eternamente sprovveduti... -
Viaggio in Russia
Nell’estate del 1926 la «Frankfurter Zeitung» propose a Joseph Roth un viaggio in Russia. Dopo i primi anni di entusiasmo per la rivoluzione, quando si firmava «Roth il Rosso», egli era entrato, ora, in una fase di dubbio: così vide quel viaggio come una preziosa occasione di verifica. Attento, curioso, con occhio vivido e mano ferma, vagò per le grandi città, seguì il corso del Volga, si spinse fra i popoli dell’Asia Centrale, scrivendo a caldo le sue corrispondenze. All’inizio, il suo atteggiamento è di forte simpatia verso quel mondo in formazione. Ma la sua lucidità gli permette anche di vedere il tetro squallore di quell’«uomo nuovo» che già si incontra in ogni strada. Mentre schiere di scrittori occidentali avrebbero visitato la Russia per decenni, gareggiando (salvo poche eccezioni) in cecità e servilismo, Roth vide e seppe raccontare tutto ciò che allora si poteva vedere. Queste sue pagine vibrano non solo per la sua arte di narratore, ma per la sua chiaroveggenza di testimone. A Walter Benjamin, quando si incontrarono a Mosca, Roth disse di essere partito bolscevico e di ritornare monarchico. In verità si stava compiendo in quei mesi la trasformazione di Roth in uno dei suoi personaggi: Franz Tunda, il protagonista di Fuga senza fine, colui che combatte per la rivoluzione e poi si aggira in un’Europa decaduta, ma soprattutto non appartiene più a nulla, ha reciso ogni legame di affinità con tutti i mondi che lo circondano e ascolta «rapito il canto dei tarli». Questo viaggio è una delle prime testimonianze illuminate di uno scrittore occidentale sulla Russia sovietica: ma esso segna anche un passaggio decisivo nell’evoluzione di Roth. Come leggiamo in una lettera da Odessa a Bernhard von Brentano: «È una gran fortuna che abbia fatto questo viaggio in Russia: altrimenti non avrei mai riconosciuto me stesso». -
Cronica
La Cronica di Anonimo romano fu definita da Gianfranco Contini, in un articolo del 1941, «uno dei capolavori dell’antica letteratura italiana». Ma si trattava, allora, del più inaccessibile fra quei capolavori, perché il testo non aveva ancora avuto un’edizione rigorosa, dopo la prima integrale, promossa dal Muratori nel 1740. Lungamente attesa, la prima edizione critica, che richiedeva un complesso e delicato lavoro di restauro filologico, sarebbe apparsa nel 1979, a cura di Giuseppe Porta. È questo il testo che qui riproduciamo, con l’aggiunta di un glossario e di un’annotazione che si propongono di rendere più agevole la lettura della mirabile opera. Scrittore colto, ma estraneo alla cultura dell’umanesimo petrarchesco e boccaccesco, l’Anonimo romano racconta, nella parte più celebrata della sua Cronica, le vicende sanguinose e crudeli di Cola di Rienzo. La sua lingua è un romanesco di potente forza espressiva. Le frasi si accostano sulla pagina come pietre massicce e spigolose. La narrazione è scandita da un ritmo di cupa fatalità. Tutto si concentra sull’intensità del particolare, sulla corposità dell’evento. Lo sconvolgente episodio della morte di Cola di Rienzo ha ben pochi termini di paragone nella letteratura italiana. Come ha detto Contini, «l’Anonimo è stato il descrittore di un’Italia tutta al contrario dell’Italia all’italiana, bonaria, che si arrangia; anzi, il descrittore dell’altro versante, dell’Italia tragica».