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Mente e natura. Un'unità necessaria
Nei suoi ultimi anni, Gregory Bateson, il maestro della «ecologia della mente», volle provare per una volta a esporre il suo pensiero – e soprattutto il modo di procedere del suo pensiero – in un solo libro: questo Mente e natura, che apparve nel 1979, pochi mesi prima della sua morte. In fondo, la preoccupazione centrale delle sue multiformi ricerche – che avevano toccato la biologia e l’antropologia, la psichiatria e l’epistemologia, lasciando ovunque tracce incancellabili – era stata sempre una sola: scoprire, descrivere, esplorare la «struttura che connette», quella struttura che è la risposta a una domanda qui presentata sulla soglia del libro: «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?». Sono queste le domande prime e ultime – e troppo spesso sono proprio quelle che vengono schivate. Con il suo sbalorditivo dono pedagogico, Bateson ci mostra come porle subito – e ci mostra anche che esse riappaiono intatte, come una sfida, alla fine di ogni processo conoscitivo. Comunque, se a una risposta dobbiamo avvicinarci, la via regale sarà, per Bateson, quella di porsi un’ulteriore domanda: che cos’è la mente? Così questo libro andrà considerato quale «inizio di uno studio su come pensare all’attività del pensare». Lo sforzo maggiore di Bateson consiste qui nell’isolare alcune caratteristiche irriducibili della mente – e nel mostrare l’intrecciarsi altrettanto irriducibile fra pensiero ed evoluzione. È questa la parte più nuova e più audace del libro, che Bateson illustra con i suoi accenni rapidi, appuntiti, carichi di potenziali sviluppi. Esempi, analisi, accostamenti imprevisti vengono così a suffragare la convinzione originaria di Bateson: quella che il conoscere, il conoscere di ciascuno di noi, sia «una piccola parte di un più ampio conoscere integrato che tiene unita l’intera biosfera o creazione». -
Ascolto il tuo cuore, città
In margine a questo libro, Savinio avverte il lettore che si tratta di «un libro discorsivo: un entretenimiento». E subito aggiunge che questa forma di «lungo e tranquillo conversare» è per lui la più ambiziosa, in quanto sottintende tutta la civiltà: qui «la fase cosmogonica della poesia – e del pensiero – è superata, sottintesa, e “taciuta”; per quel pudore che è regola rigorosa sul piano di questa superiore civiltà. Ormai non si opera più, non si cede più alla bassa ambizione di mettere le mani in pasta. Si rievoca soltanto. Si passa tranquilli, indifferenti, fra i ricordi che il dramma ha lasciato dietro di sé. E solo c’è voce per un discorso calmo. Poi, più oltre, più su, luogo non ci sarà nemmeno per un discorso; ma solo per il silenzio». Una volta decifrato tale impeccabile cartiglio, che illustra non solo questo libro ma tutta l’opera di Savinio, siamo pronti a seguire questo «lungo conversare» che – ci accorgeremo presto – è anche un passeggiare: passeggiare per Milano, scoprendo in questa città (che Savinio si azzarda a definire «dotta e meditativa: la più romantica delle città italiane») una selva di associazioni, di figure, di fantasmi, di fatti. Per lo scrittore, Milano è una robusta, onesta stoffa su cui ricamare divagazioni. E la divagazione è per lui anche il pretesto per contrabbandare i frammenti di una sottile confessione autobiografica. Ovunque si spinga in questo suo urbano girovagare, Savinio è assistito dalla sua amica più fedele, l’ironia, intesa come «maniera sottile d’insinuarsi nel segreto delle cose», virtù tanto più necessaria a Milano, che si presenta come «città tutta pietra in apparenza e dura», mentre è «morbida di giardini “interni”». E, a fianco di Savinio, quale perenne compagno di conversazione riconosciamo un’ombra, il milanese Henri Beyle. Da lui, solo da lui, Savinio ha derivato un certo sguardo amoroso che si posa sui dettagli della città – e persino un gesto che ormai è una sfida dell’immaginazione, respirare «a pieni polmoni l’odore della sua cara città, ch’è l’odore di legno bruciato esalato dai camini e custodito dalla nebbia». -
Discorsi sacri
Questo libro è «la prima e unica autobiografia religiosa che il mondo pagano ci ha lasciato» (Dodds), ma anche in certo modo il primo caso clinico che conosciamo, documentato dal paziente stesso. Tutta la vita di Elio Aristide ruota infatti intorno a un male psichico, mutevole e insidioso. E al tempo stesso intorno alla divinità che salva dal male: Asclepio. Nel santuario del dio, a Pergamo, si compiva il rito dell’incubazione: il paziente andava in quel luogo a sognare, e l’intervento guaritore del dio avveniva appunto nel sogno. Si creava così una sacra intimità fra il paziente e Asclepio. Da essa è dominata tutta la vita di Aristide: questo abile e fecondo retore, sempre oscillante fra la minuziosa ossessività nevrotica e la maestà sciamanica, ha scelto, per raccontare la storia della sua anima, una forma tortuosa, in un perpetuo intreccio fra sogni risanatori ed eventi perturbanti: intreccio di cui è superfluo sottolineare la sconcertante modernità. E un’altra sensazione ci colpisce subito in questo testo: mai avevamo avuto l’impressione di calarci così profondamente nella vita quotidiana di uno scrittore dell’antichità classica. A lungo trascurati per la loro eccessiva stranezza, questi Discorsi sacri, che risalgono al secondo secolo dopo Cristo, epoca della suprema fioritura dell’Asclepieo di Pergamo, vengono oggi riscoperti e rivendicati quale «documento unico, e uno dei più notevoli del mondo antico» (Festugière). -
Cristallo di rocca
Cristallo di rocca (1853) è la storia di due bambini sperduti fra i ghiacci in una tempesta di neve, alla vigilia di Natale. Avanzano «con la tenacia e il vigore che hanno i bambini e gli animali, perché non sanno ciò che li attende e quando le loro energie saranno esaurite». Ma un paesaggio sempre più estraneo e impenetrabile li avvolge, come una sterminata, candida prigione. Nella passeggiata avventurosa di questi due bambini fra il paese della nonna e quello dei genitori, Stifter ha fissato l’immagine stessa che governa tutta la sua arte: quella di una natura familiare e intima, che si spalanca poi, se appena deviamo dal sentiero battuto, in uno spazio inquietante, primordiale, dove la nostra presenza è quella di «puntini minuscoli» fra «blocchi immensi». Il mondo di Stifter è devoto ugualmente alla minuzia e alla grandiosità; alle orme nella neve, delle quali il calzolaio del paese dice: «Non sono di scarpe di mia lavorazione», e al tempo stesso ai ghiacci abbaglianti, alle caverne azzurrine che ci introducono a palazzi incantati e infidi. Questo racconto mirabile ricalca un antico modello di fiaba: quello delle storie di bambini perduti e scampati alla morte. Ma l’emozione che esso evoca sembra risalire ancora più indietro, a un’alba silenziosa precedente a ogni storia, allo sgomento ammaliato del bambino dinanzi alla «tenebra bianca» della natura. -
Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico
Con questo libro si rivelò al mondo, nell’anno 1911, la scienza delle scienze, che tutte le altre ingloba e vanifica: la patafisica, «scienza delle soluzioni immaginarie», che si prefigge di studiare le leggi che reggono le eccezioni (quindi, in modo più o meno evidente, tutto) e di spiegare l’universo supplementare al nostro. Suo araldo è il dottor Faustroll, «negromante moderno, mescolanza di uomo e di marionetta, di trasposizione mitica e di caricatura» (Sergio Solmi). Al pari di tanti eroi delle favole, il dottor Faustroll deve compiere un viaggio – e la sua imbarcazione si spingerà indifferentemente per terra, per mare o per le vie della città. Le varie «isole» a cui approda sono altrettante costellazioni sull’atlante celeste della décadence, come dire su quello che ancora oggi è il nostro cielo. Lì vegliano invisibili numi protettori, che rispondono volta a volta ai nomi di Lautréamont e di Bloy, di Mallarmé e di Gauguin, di Schwob e di Verne. E lì sentiremo risuonare l’inestinguibile riso patafisico, che si sovrappone a quello più antico di Rabelais, in quanto «coscienza viva di una dualità assurda e che salta agli occhi». In quanto tale, precisava Daumal, esso è «la sola espressione umana dell’identità dei contrari (e, cosa notevole, ne è l’espressione in una lingua universale)». -
Cronaca di famiglia
Aksakov scoprì tardi la sua vera vena di scrittore, e quasi per istigazione di amici (amici che si chiamavano, fra gli altri, Gogol’ e Turgenev) giunse a pubblicare, nel 1856, questa Cronaca di famiglia, che fu salutata con entusiasmi paragonabili a quelli che aveva suscitato Le anime morte. Non sembrava crederci molto egli stesso: soprattutto, si sentiva incapace di «inventare». Ma il suo segreto era un altro, il segreto russo per eccellenza: tutto ciò che racconta la sua «cronaca di famiglia» immediatamente esiste, come una roccia fra l’erba, con la stessa nettezza di profili e superfici, con la stessa evidenza, come fosse lì da sempre. Aksakov non vuole, non può essere altro che un «imparziale narratore di racconti tramandatisi oralmente»: storie di suoi parenti, filtrate dal racconto di altri parenti, servitori, amici; storie del governatorato di Ufa, nella profonda provincia russa, verso la fine del Settecento. Qui la civiltà che viene da Occidente non si è curata di lasciare altro che labili tracce. E la piccola città è circondata dalla steppa, dove ancora cavalcano i nomadi baškiri e mordvini, a cui alcuni isolati possidenti russi sottraggono, con rudimentali astuzie, sterminati terreni. Uno di quei possidenti è Stepan Michajlovic Bagrov: un uomo di antica nobiltà, incolto, massiccio, traboccante di delicatezze e di furie, che «senza sbagliarsi intuiva il male e senza sbagliarsi era attratto dal bene». Fin dal suo apparire, sentiamo di trovarci di fronte a una di quelle immense figure che segnano i primordi del romanzo russo. Dalla sua casa, dalla sua campagna, dalla sua famiglia si dipartiranno altre figure e altre storie, fino alla nascita di un primo nipote, che è l’autore stesso. Sono vicende dove incontriamo il mostruoso e il tenero, il ridicolo e il perfido, il dolce e il crudele in situazioni e ritratti che sembrano contenere in potenza gran parte di quel che poi sprigionerà il romanzo russo, mentre la discendenza più diretta della Cronaca di famiglia si riconosce in Turgenev e nel Tolstoj di Infanzia e Adolescenza. Ma ciò che qui si rivela essenziale è innanzitutto il procedere della «cronaca» come un fiume nella steppa, largo, trasparente, con improvvisi vortici e mulinelli, con gore, giunchi e rigagnoli laterali. Il grandioso personaggio del nonno, Stepan Michajlovic, si trasforma a poco a poco da oggetto in soggetto del narrare: perché sempre più, leggendo, lo sovrapponiamo ad Aksakov stesso, anziano possidente ritirato nella sua campagna, amato patriarca semicieco che ricorda – e pensa che i suoi ricordi abbiano un qualche valore solo perché aveva «vissuto una vita intera» e «conservato calore e vitalità». Era un «calore» che gli permetteva di abbracciare la vita senza escluderne niente, neppure il «ronzio da soprano» delle zanzare: «in esse sento l’estate afosa, le splendide notti insonni, le rive del Buguruslan coperte di verdi cespugli, dove da ogni parte si levavano canti d’usignoli; ricordo i palpiti del giovane cuore e la dolce, vaga tristezza, per cui ora darei tutto quel che resta della mia vita che si sta spegnendo». -
Una sola moltitudine. Testo portoghese a fronte. Vol. 2
Con questo volume si conclude la vasta scelta, a cura di Antonio Tabucchi, dell’opera plurale di Fernando Pessoa. Qui accolte si troveranno liriche di Pessoa ortonimo, fra le quali il poemetto esoterico Messaggio, unico volume in versi pubblicato in vita dall’autore e vero sigillo della sua opera; liriche di Ricardo Reis, «innocente pagano della decadenza», che custodisce una «coscienza lucida e solenne delle cose e degli esseri»; liriche di Alberto Caeiro, eteronimo maestro di eteronimi (Reis e Álvaro de Campos), sulla cui figura Pessoa scrisse: «ha dato più ispirazione alla mia ispirazione e più anima alla mia anima»; infine il sorprendente Coelho Pacheco, anticipatore della scrittura automatica, quale poi sarà rivendicata dal surrealismo. -
Matrimoni indoeuropei
«Nel mondo divino come in quello degli uomini, nel cosmo come sulla terra, il successo e la stessa vita ordinaria hanno origine dal gioco armonioso, statico o dinamico, di tre modi o mezzi di azione che corrispondono rispettivamente ai bisogni magico-religiosi, militari, economici di una qualsiasi società». In queste parole Dumézil ha accennato al presupposto della sua ricerca sui fondamenti della civiltà indoeuropea, ricerca che in circa mezzo secolo ha mutato e arricchito in misura stupefacente il paesaggio mentale entro cui osserviamo il nostro passato. Nel magistrale studio (1979) che qui si presenta, per esempio, Dumézil è riuscito a illuminare un’istituzione su cui la società intera fa perno: il matrimonio. Molte sono le sue varietà, spesso oscure o astruse, quali ci appaiono nelle antiche classificazioni indiane o nelle formule del diritto romano: c’è il matrimonio sacerdotale, dove il padre fa dono della figlia al genero e in trasparenza si intravede il nesso fra nozze e sacrificio; c’è il matrimonio dove la sposa è «padrona assoluta di se stessa»; c’è il matrimonio per ratto; c’è il matrimonio per acquisto della sposa. Dumézil distingue e articola queste forme l’una con l’altra, come altrettanti spicchi di uno sfrangiato ventaglio, in una continua analisi comparativa fra l’India e Roma antica, con excursus nelle imprese mitologiche di Eracle e di Sigfrido. Ciò che ne risulta non è solo una preziosa immagine ‘stereoscopica’ del matrimonio indoeuropeo, ma l’individuazione del sottile gioco di gesti, riti, situazioni, condizioni entro cui si manifestano due potenze: l’imposizione e la libera scelta. -
Chéri
Molti conoscono Chéri prima di aver letto Chéri. Perché questo ragazzo «coi capelli dai riflessi blu come le penne dei merli» è passato direttamente dalle pagine del breve romanzo di Colette al cielo degli archetipi. Con la protervia della bellezza giovane, Chéri irrompe nella vita di Léa, donna leggera e sapiente, «cortigiana danarosa e buona figliola a cui la vita aveva risparmiato le catastrofi fascinose e i nobili dolori» – ma glieli aveva risparmiati per concentrarli tutti in una sola storia, che la colpisce quando ha l’età «in cui è lecito concedersi qualche piccolo piacere». Nel triangolo amoroso apparirà qui il rivale più temibile: il Tempo, nel suo ruolo di corruttore dei corpi. L’autunnale opulenza di Léa e l’acerbo smalto di Chéri vengono spiati, in ogni attimo, da un occhio a cui nulla sfugge. Così questa vicenda, scandita dalle scene di una magistrale commedia demi-mondaine, diventa la cronaca di una catastrofe, dove il sentimento è delicatamente avvolto nella fisiologia e brama di sprofondare «in quell’abisso da cui l’amore risale pallido, taciturno e pieno del rimpianto della morte». -
Le parole dell'estasi
Maria Maddalena, della celebre famiglia dei Pazzi, fu rapita dalle prime estasi all’età di sedici anni, nel 1582. La sua opera è costituita dalle parole che in tali occasioni era solita dire ad alta voce, trascritte dalle consorelle: quattro dettatrici ripetevano le frasi còlte dalla sua bocca e quattro trascrittrici le fissavano sulla carta. In questa situazione di linguaggio assoluto, dove l’eloquio ignora l’interlocutore e si rivolge soltanto a un proprio segreto, fioriscono alcune delle pagine mistiche più sconvolgenti che conosciamo. Non già – come per esempio in Teresa d’Ávila – troveremo qui un’analisi perspicua degli stati e dei passaggi fra gli stati: ma sempre un vortice di parole e immagini, che trabocca e stilla, fluendo fra le isole dei silenzi. Come scrive Giovanni Pozzi, curatore di questa antologia, che vuole restituire Maria Maddalena al suo rango altissimo fra gli autori mistici, sono «assorbimenti repentini, alienazioni totali dal mondo circostante, visioni descritte nei particolari, voltate a sensi allegorici, applicate a realtà terrene, motivate con elucubrazioni di raffinata astrattezza; sceneggiatura di fatti ultraterreni, svoltisi sulle soglie dei più alti cieli o nel fondo degli abissi infernali, intramezzate da danze, corse, agitazioni convulsive o rigidità corporee; e soprattutto lunghissimi eloqui, svolti ad alta voce, con parole veloci o scandite, sommesse o urlate, ininterrotte o intercalate da silenzi contemplativi». È una teologia negativa tutta sperimentale, dove la parola si lascia gloriosamente soverchiare: «Il maggior narrare che si possa fare di te è di rilassarsi tutto in te e annichilarsi sotto te (silenzio)». -
Il mondo del principe splendente. Vita di corte nell'antico Giappone
Una vita fondata sullo stile e sulla bellezza, criteri ultimi e assoluti: così ci appare il mondo della corte Heian, che fiorì in Giappone intorno al decimo secolo dopo Cristo. Ignota all’Occidente e scarsamente nota persino in Cina, questa civiltà raggiunse una vertiginosa perfezione, di cui ci hanno lasciato dettagliata testimonianza soprattutto alcune donne dalla sensibilità sottilissima, come Murasaki e Sei Sho-nagon. Emblema di quel mondo è il «Principe Splendente», figlio dell’Imperatore, protagonista della Storia di Genji, che rimane il vertice ineguagliato della letteratura giapponese. La corte Heian era una forma aristocratica chiusa e centrata su se stessa. Al suo interno vigeva una severa e complessa divisione in ranghi, così minuziosa da includere il rango dei fantasmi e quello della gattina prediletta dell’Imperatore. Ma il modo di manifestarsi del rango era innanzitutto estetico: la qualità della calligrafia o anche certi particolari minimi del comportamento, persino il «tono» della tosse. Come scrisse Waley, il «culto della calligrafia» fu allora la «vera religione». Quel periodo non mancò certo di conflitti e crudeli lotte di potere: ma «molti degli uomini che avevano raggiunto posizioni elevate nella gerarchia amministrativa Heian, dimostravano ben poco interesse per le loro responsabilità pubbliche e preferivano dedicare il loro tempo a comporre eleganti poesie in cinese o a controllare nei minimi dettagli complicate cerimonie, anziché adempiere ai prosaici doveri delle loro mansioni ufficiali». Un errore di gusto veniva considerato riprovevole come per un nobile europeo sarebbe stata una lesione del proprio onore. Quanto alle donne, le intravediamo nella «penombra dei loro tendaggi e paraventi» intente a coltivare e sviluppare sino a un impalpabile limite la percezione infinitesimale dei sentimenti e delle forme. L’impronta dell’epoca, intatta nel tempo, è innanzitutto femminile. Ivan Morris dedicò buona parte della sua vita a studiare la civiltà Heian – e nel libro che qui si presenta sono condensate le sue lunghe ricerche: opera felicissima, sulla quale stinge la sovrana eleganza del tema trattato, non è soltanto un sostanzioso studio storico, ma un tentativo di ricomporre, in tutti i suoi aspetti, uno scenario remoto e fascinoso. Pervade qui ogni pagina un eloquente invito a ritrovare in noi lo «spirito dell’aware», parola intraducibile che si riferisce alla «qualità emotiva insita negli oggetti, nella gente, nella natura o nell’arte». Su tale sfondo, incantevole e precario, è qui evocata la vita di un mondo che splende nella memoria «come luci di navi nel buio dell’oceano». -
La leggenda del figlio del re Horkham
Il padre del Buddha aveva voluto proteggere il figlio dal contatto con i mali della vita, e perciò gli mostrò per anni solo un mondo di delizie. Re Horkham escogita un esperimento inverso: preoccupato al pensiero che il figlio cresca nella ingannevole sicurezza del potere e delloro, decide di esporlo agli incerti della fortuna, perché conosca tutti gli aspetti della vita e conquisti la saggezza prima di essere chiamato, un giorno, a succedere al trono del padre. È questa lorigine di un intreccio di destini che qui ci viene narrato come in un apocrifo racconto delle Mille e una notte. Il figlio diventerà, senza saperlo, il più grande nemico del padre: lo Sceicco Verde, leggendario brigante che pretende di imporre la giustizia sulla terra. Il padre cederà il trono a colui che crede essere suo figlio, ed è invece figlio di un oscuro armaiolo. Qui ogni personaggio compie lopposto di ciò che si proponeva di fare, ma è condannato a non accorgersene. Le figure si sdoppiano, gli equivoci si propagano. Il racconto procede, sobrio e netto, inscatolando una storia dentro laltra, con la cadenza di unantica leggenda. Ma vi sentiamo agire un veleno moderno: la vertigine del dubbio, la dissoluzione di ogni certezza, innanzitutto di ogni identità e del significato di ogni atto. Questo libro, che ci giunge davvero come un manoscritto nella bottiglia, a distanza di varie decine danni dalla sua stesura, è una favola, geometrica e misteriosa, sulla impari lotta fra volontà e destino. Nelle parole del saggio Bilmemne, che punteggiano il racconto: «Il Destino sembra spesso divertirsi a far sorgere il male là dove dovrebbe scaturire il bene, affinché luomo non concepisca una fiducia eccessiva nei propri giudizi e non creda allinfallibilità della propria ragione». La leggenda del figlio del Re Horkham risale agli anni Quaranta ed è rimasto inedito durante la vita dellautore. -
Genealogia della morale. Uno scritto polemico
Opera filosofica scritta e pubblicata nel 1887. Scritta con l'intenzione di accentuare la portata di ""Di là dal bene e dal male"""" è composta di tre saggi, intitolati: """"Buono e malvagio, buono e cattivo"""", """"Colpa, cattiva coscienza e affini"""", """"Che cosa significano gli ideali scettici?"""". Nel primo N. tratta dell'essenza e dell'origine del Cristianesimo; nel secondo la coscienza è riconosciuta non come la voce di Dio nell'uomo, ma come l'istinto della crudeltà che si ripiega su se stesso dopo che non ha potuto sfogarsi esteriormente. Nel terzo N. trova la spiegazione della potenza, da lui considerata negativamente, dell'ideale ascetico-religioso nel fatto che questa forma di disciplina era l'unica, """"fino a Zarathustra"""", che fosse proposta agli uomini."" -
Post mortem
Post mortem è uno di quei rari libri che vanno fino in fondo, con una radicalità impassibile che lascia sconcertati sin dalle prime righe e non viene meno sino alle ultime. Queste pagine furono scritte da Caraco subito dopo la morte della madre, a cui lo legava un tropicale rigoglio di amore, disamore, odio, dipendenza, passione. Così, in «linguaggio amoroso», e quasi scandendo un’omelia funebre, Caraco ha raccontato un rapporto terribile per intensità e ambivalenza. Sua madre, donna frivola, devota a ciprie e belletti, ornamento di feste in consolati sudamericani, era al tempo stesso la «madre divoratrice» e la «Mater Gloriosa». Caraco la celebra come un sacerdote, conscio di essere stato mutilato sessualmente dalla dea. Ma quella mutilazione aveva segnato anche la sua iniziazione. E il figlio aveva rincarato sui precetti della madre: lei voleva solo fargli rifiutare il sesso (quindi le altre donne), lui si spinse sino a rifiutare la vita e passò i suoi anni a scandagliare, in perfetta solitudine e nella più pura prosa classica, il Nero dell’esistenza. Questo piccolo libro (1968), nucleo di una imponente concentrazione di forze, è il primo testo pubblicato in Italia di Albert Caraco, alla cui vita dedica una Nota profondamente partecipe il suo primo vero lettore, e poi editore, Vladimir Dimitrijevic. -
Brecce
Questa «antologia personale», che attraversa gli scritti di Henri Michaux da ""Chi fui"""" (1927) al """"Giardino esaltato"""" (1983), è stata composta dall'autore su richiesta dell'editore italiano. Per chi ancora non conosce Michaux, sarà questa la perfetta guida alla sua opera; per chi lo conosce, sarà un libro nuovo, ricco di sottili rivelazioni, quello in cui Michaux ha voluto illuminare sé a se stesso, e a tutti noi. Tutta l'opera di Michaux risponde a una domanda che non riusciamo a formulare, eppure sentiamo essenziale. Col tempo, i suoi scritti si dimostrano sempre più nettamente insituabili, come già lo erano quando cominciarono ad apparire, nella Parigi degli anni venti. Possono presentarsi come racconti, poesie, riflessioni, esorcismi, dialoghi, aforismi, visioni: ma ogni volta li sentiamo evadere dal quadro di una forma preesistente. Ed è questa una peculiarità costante di questo scrittore, che ha con la 'letteratura' rapporti di acuminata diffidenza. I suoi paesaggi sono sempre altrove, in un Tibet dell'anima. Ogni libro di Michaux è il resoconto di un'esplorazione, che ama calarsi nelle «infinitesime fluttuazioni», ma si azzarda anche a perdersi nella sterminata vastità. Nelle sue pagine troviamo tracciati, con la precisione cerimoniale di un calligrafo cinese, innumerevoli «movimenti dell'essere interiore», soprattutto quelli che non hanno più un nome o non l'hanno mai avuto. Ciascuno di questi movimenti è una breccia fra il visibile e l'invisibile. I testi sono le macerie di quelle «brecce». Ogni racconto è l'accenno di una metamorfosi. «Sono già stato di tutto, e tante volte» dice una voce di Michaux, e prosegue: «Di rado vedo qualcosa senza provare quel sentimento così particolare... Ah sì, sono stato questo... non me ne ricordo con esattezza, lo sento. Perciò mi piacciono tanto le Enciclopedie Illustrate. Le sfoglio, le sfoglio e ho spesso qualche soddisfazione perché lì trovo le fotografie di parecchi esseri che non sono ancora stato. Questo mi riposa, è delizioso, mi dico: """"Avrei potuto essere anche questo, e questo, e mi è stato risparmiato"""". Ho un sospiro di sollievo. """"Ah! Il riposo!""""»."" -
A Sarajevo, il 28 giugno
Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divide in due la storia del XX secolo: l’attentato in cui fu ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando. Prima di quel giorno, esisteva un mondo che presto sembrò remoto. Dopo quel giorno, è già il nostro presente. Se le guardiamo da vicino, quelle ore traversate da un invisibile confine appaiono gremite, come tutte le altre, di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri fortuiti. Gilberto Forti ha avvicinato ad esse la lente della poesia e ne ha estratto undici «storie in versi» che si presentano con quella felice sobrietà narrativa di cui l’autore aveva già dato prova nel Piccolo almanacco di Radetzky. A parlare sono, ogni volta, personaggi immaginari che raccontano la realtà. E subito ci vengono incontro voci e figure, dall’Imperatore Francesco Giuseppe, che «si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse», all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte all’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono tutti intorno a un centro: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi possiamo vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Imponente è la catena dei casi, delle inconsce volontà, dei consapevoli disegni che portarono a quei colpi di pistola, come se gli eventi fossero calamitati. E quasi come se la vittima li avesse cercati. Francesco Ferdinando qui non parla, ma altri parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Forti è riuscito a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia: sterminatore di animali (più di trecentomila furono da lui uccisi cacciando), appassionato di fiori (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico, finirà dissanguato sotto i colpi di Gavrilo Princip anche perché nessuno saprà aprirgli subito l’uniforme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’incipiente obesità. -
Il poeta e il tempo
Marina Cvetaeva ha fissato lo sguardo a lungo, tutta la vita, su una divinità terrorizzante: il tempo. E intanto il suo orecchio ascoltava: «Do ascolto a qualcosa che risuona in me in modo costante ma non uniforme, ora dandomi indicazioni, ora dandomi ordini. Quando indica – discuto, quando ingiunge – ubbidisco». Quel «qualcosa che risuona» era la parola della poesia. Il tempo terrorizza perché «corre sempre, corre solo perché corre, corre per correre», ma «non corre in nessun posto», se non nello «squarcio in cui confluisce tutto ciò che scorre». La parola poetica, che si pretende assoluta sin dai grandi romantici, è il paradosso di un imponderabile che permane intatto, preda di noi tutti, che «siamo i lupi dell’impenetrabile bosco dell’Eterno». Su questa tensione ultima, che vibra un attimo prima di spezzarsi, Marina Cvetaeva ha costruito la sua opera. Il libro che qui si presenta raccoglie alcuni saggi, pubblicati in riviste varie fra il 1926 e il 1933, e mai prima riuniti in volume, che hanno proprio quella tensione come oggetto – e per ciò stesso toccano il segreto della Cvetaeva. Da Novalis a oggi, rare volte l’azzardo della poesia come assoluto ha trovato una formulazione così drastica, così elementare, così soverchiante. La Cvetaeva ascolta le voci, come Giovanna d’Arco, perché opera in lei l’eredità sciamanica della poesia. Ma al tempo stesso acuisce il fanatismo della forma, che è la nostra eredità moderna. In lei, un cuore profondamente arcaico ci trasmette «battiti che danno l’esatta pulsazione del secolo». Le sue parole ci giungono da quella Russia che «non è mai stata sulle carte geografiche della terra», il paese dell’Estremo, quello che incontriamo «all’estremo confine del visibile». -
Il conte di Saint-Germain
Lernet-Holenia «si muove con l’eleganza di un topo d’albergo in abito da sera, che vuol fare un colpo», scrisse Gottfried Benn. E quel «colpo» era un azzardo metafisico: costruire intrecci che avvolgano in ragnatele i mondi sovrapposti entro cui viviamo. Mai ciò è apparso così evidente come nel Conte di Saint-Germain (1948), il più vertiginoso fra i suoi intrecci, quello dove più chiaramente questo grande giocatore e avventuriero della narrazione ha accettato di giocare a carte scoperte. Secondo la leggenda, il conte di Saint-Germain è un immortale: figura equivoca e magica, traversa la storia del secolo XVIII e, da allora, riappare capricciosamente a punteggiare il corso degli eventi. Riappare anche nel titolo di questo romanzo, senza esserne però il protagonista. Saint-Germain è qui, piuttosto, lo spettro che abita queste pagine come un’antica dimora. Sarebbe vano accennare al profilo della storia che in esse si racconta, a tal punto è ricca e polifonica la sua articolazione. La scena è una Vienna torbida e raggelante, alla vigilia dell’annessione dell’Austria da parte della Germania di Hitler, «quell’orribile austriaco», come qualcuno lo definisce in società. Ma, all’interno di tale cornice, sembra aprirsi una voragine nel tempo, dove incontriamo il ricordo di un assassinio impunito, ma anche un processo a Pilato messo in scena da alcuni collegiali; un vaticinio del conte di Saint-Germain sulla fine della Casa d’Austria, mentre intorno si svolge la guerra dei Sette Anni; due figure femminili opposte ed enigmatiche; le architetture cifrate dei Templari; un vecchio suicida ripescato in uno stagno; l’occhio dei portieri impazienti di denunciare i loro padroni ai padroni del Nuovo Regime; reminiscenze di fatti lontani che affiorano in persone che non li hanno vissuti o non dovrebbero esserne a conoscenza. Su tutto, incombe un’ossessiva metafisica del bastardo e del doppio: il sospetto che l’unica forza capace di sopravvivere sia quella dello spurio, come se la Creazione stessa fosse figlia illegittima di un Dio. Dinanzi al protagonista, sembra «che ciò che esiste si stia ritraendo», mentre ciò che non esiste lo incalza sempre più da vicino. Al capezzale di una realtà che sta per scomparire – in questo caso un’intera civiltà – si affollano le larve di ciò che è stato e continua in segreto a operare. Tutto oscilla perennemente fra la mera inesistenza e una sorta di sovrarealtà – e quell’oscillazione non permette alcuna certezza, neppure quella del dubbio. Tale è il magistero di Lernet-Holenia nell’infiltrare l’invisibile nei pori del visibile che quando, alla fine, il protagonista morirà linciato da una folla di dimostranti, non sappiamo bene se a colpirlo non sia stata invece una torma di ricordi e di morti. Rare volte un romanzo, pur mantenendo una smaltata e invadente presenza dei fatti, dei volti e dei dettagli, è riuscito a scoprire davanti ai nostri occhi con altrettanta sicurezza e sveltezza di mano quel «gigantesco meccanismo d’orologeria» che è «l’orologio del destino». -
L'età d'oro
Si entra in questo libro come varcando i cancelli invisibili dell’infanzia: dentro vi troviamo Edward, Harold, Selina, Charlotte, il narratore, cinque bambini in una casa di campagna inglese verso la fine dell’Ottocento, pronti a difendere con il coltello fra i denti qualcosa che non sanno neppure essere la felicità. Intorno a loro gli zii, e altri adulti di passaggio: sono «gli Olimpii», esseri che insistono nel dedicarsi a patetiche, irragionevoli e incongrue occupazioni, quando potrebbero fare ben altro: «Avrebbero potuto sguazzare tutto il giorno nello stagno, inseguire i polli, arrampicarsi sugli alberi coi più impeccabili vestiti della festa; erano liberi di comprare polvere pirica alla luce del sole, di sparare palle di cannone e di far esplodere mine sul prato: ma loro non se lo sognavano nemmeno». I ragazzi, invece, guatano ogni attimo disponibile per gettarsi in attività inebrianti: scavalcare muri in camicia da notte; sfogliare il Libro delle Fate; perseguitare volatili; trasmettere bigliettini amorosi; offrire bomboloni fantasma a viaggiatori invisibili; scegliere una dama a cui votarsi. E soprattutto complottare senza tregua, attizzare una complicità iniziatica e uno spirito di sedizione che può manifestarsi nello scivolare lungo la ringhiera delle scale come nell’offrire un topo morto a una signora o nel fuggire in barca lungo il fiume, cercando – e naturalmente trovando – la Principessa. Ovvio presupposto, per questi ragazzi, è che la vita consista soprattutto nel «far finta» – e che, a sua volta, il «far finta» sia il modo più sicuro per entrare in contatto con le cose che ci sono. Sanno che il frutteto è un «luogo prodigioso abitato dai folletti», sanno che i personaggi più fascinosi che si trovano nei libri esistono proprio perché se ne parla nei libri, riconoscono subito certe «sillabe magiche» in parole come «grotta», «trabocchetto», «forziere», «lingotti d’oro», «dobloni». Un giorno, facendo scattare una molla in uno scrittoio abbandonato, uno dei ragazzi scoprirà un «cassetto segreto». Ma, invece del tesoro dei pirati, vi troverà «due bottoni d’oro ossidati che parevano da marinaio, il ritratto di un monarca a me sconosciuto, ritagliato da una vecchia stampa e abilmente colorato a mano con lo stesso tipo di spavalda tinteggiatura che usavo io; alcune monete straniere, di rame, più spesse e di fattura più rozza di quelle che possedevo io; e un elenco di uova di uccelli, coi nomi dei posti dove erano state trovate. E poi il muso di un furetto, e una corda catramata che serbava ancora un lieve odore». Per una volta, il ragazzo non allunga la mano avida su quelle disparate reliquie, ma le richiude nello scrittoio. È quello il tesoro dell’infanzia, che si trasmette intatto di generazione in generazione. «Restituii il cassetto, con tutto il suo contenuto, al fidato scrittoio, e con una certa soddisfazione sentii lo scatto della molla. Un giorno, forse, un altro ragazzo l’avrebbe fatta scattare di nuovo». -
Il libro dei Salmi
"Il Libro dei Salmi"""" non è soltanto uno dei libri più grandi su cui l'occhio possa posarsi. È anche un libro le cui parole, abbandonato """"il selvatico e il roccioso"""" del loro luogo d'origine, si sono diffuse in rivoli inesauribili ovunque, mescolandosi alle espressioni più familiari, lasciandosi ripetere da tanti che non sanno neppure di ripeterle. Tradurre questo libro è dunque un risalire le acque del Giordano, attraversare le illuminazioni e i fraintendimenti di secoli. Dei salmi Guido Ceronetti ci offre una versione memorabile, innanzitutto per la tenacia nel mantenere la parola """"costantemente nel deserto, in una luce che angaria d'assoluto"""" e per la capacità di torcere la lingua del bel canto verso la """"forza del verbo semitico con la sua visione monotona e dirompente di Dio"""". E altrettanto memorabile è l'appassionante commento, vero diario di una vita con l'angelo. Un angelo esigente che si presenta sotto forma di versetti, martellanti nella memoria, in attesa di una nuova lettura, sempre più precisa, sempre più intensa. Un angelo che istiga a un continuo spostarsi della tenda nomade del pensiero verso la """"misteriosa nicchia"""" del testo. Alla fine di questa lunga migrazione, compiuto il suo """"dovere di alchimista"""", Ceronetti ci consegna questo """"Libro dei Salmi"""", non più """"grande rosa spampanata priva di spine"""", come nella versione di San Girolamo, ma improbabile fiore del deserto, con un solo consiglio: """"Fatevi in casa un pezzo di muro rotto, collocateli là""""."