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Erewhon
Erewhon, romanzo fantastico e satirico pubblicato anonimo nel 1872, cui fece seguito, quasi trent’anni dopo, il non meno affascinante Ritorno in Erewhon, è l’opera più ricca e sorprendente di Samuel Butler, erede di Swift e precursore della fantascienza, outsider arrabbiato nell’Inghilterra di fine secolo. Erewhon, cioè Nowhere (In-nessun-posto) è un mondo solo apparentemente immaginario dove i malati vengono messi in prigione e processati; le vittime sono considerate immorali; i delinquenti vanno all’ospedale, ovvero sono curati a domicilio da medici dell’anima chiamati «raddrizzatori»; le scuole dell’Irragionevolezza insegnano la lingua ipotetica, e suprema istituzione del paese sono le mistiche Banche Musicali. Ma quel che forse colpirà di più il lettore di oggi è la chiaroveggenza di Butler sul futuro di una civiltà tecnologica che è già diventato, per noi, presente. -
Umano, troppo umano. Vol. 1
Umano, troppo umano, I (1878) è la prima opera di Nietzsche presentata in quella forma aforistica che si rivelerà poi essere la sua più peculiare. Con questo libro Nietzsche sentì di avere compiuto «un vero progresso –, verso me stesso», collegato innanzitutto al suo graduale svincolarsi dalle due esperienze decisive della sua giovinezza: la filosofia di Schopenhauer e l’arte di Wagner. Liberazione necessariamente dolorosa, per cui queste pagine possono anche essere viste come «il monumento di una crisi». Ma anche percorso segnato da scoperte sorprendenti, dal momento in cui tutta una serie di impulsi conoscitivi, accantonati o repressi per la vicinanza di Wagner e del suo ambiente, vengono lasciati liberi di espandersi in una meditazione solitaria. Qui appare già, con tutta la sua potenza corrosiva, il Nietzsche che dubita, che mina ogni certezza, che si addestra allo stile tagliente dei grandi moralisti francesi – in breve il Nietzsche stilisticamente più moderno. E non si tratta solo di una conquista stilistica. Con l’aforisma si manifesta una nuova fase della conoscenza: esso induce a una sorta di lampeggiamento razionale, all’analisi come incursione fulminea, che getta luce su un punto concreto, prima di ritrarsi nell’oscurità. Così, questa forma diventa l’arma naturale di «uno spirito spietato, che conosce tutti i nascondigli dove l’ideale sta di casa». Qui si può dire che assistiamo all’origine di quelle «dure cose di psicologia» che costelleranno sino alla fine l’opera di Nietzsche – e avvieranno a molte delle sue più preziose intuizioni. -
Il simposio
Se esiste il testo sull’amore nella nostra civiltà, a cui ogni testo successivo non può che ricondursi, questo è il Simposio, il dialogo di Platone che più di ogni altro ha mantenuto intatto il «fiore della gioventù» e ci si offre naturalmente non già come una disputa filosofica, ma come una lunga conversazione – forse la più bella conversazione della letteratura – fra spiriti «eccellenti» (oltre a Socrate, il suo grande avversario Aristofane e il bellissimo Alcibiade) che, uno dopo l’altro, prendono la parola e raccontano di una potenza inesauribile: Eros. C’è chi dice che sia il dio più antico, altri invece sostiene che è il dio più giovane, altri che è un grande demone. A tutti esso appare «meraviglioso fra gli uomini e gli dèi». Le due forme di Afrodite, il mito dell’androgino, le origini dell’antichissimo desiderio «di fare, di due, uno» e così di «guarire la natura umana», «la morbidezza e «l’asprezza» dell’amore, la natura del desiderio: con articolazione sottilissima, attraverso le varie voci, Platone tocca tutti i punti sensibili dell’eros e infine affida a una vera iniziatrice ai «misteri d’amore», Diotima, il compito di schiuderne i segreti ultimi. E qui, come pure nell’ultima, trascinante apparizione di Alcibiade, diventano espliciti, forse più di altre volte in Platone, i riferimenti alla «sapienza» e all’«enigma». Anche per questo, dunque, Giorgio Colli è stato interprete profondamente congeniale di questo testo, in cui risuonano, limpidi e misteriosi, alcuni temi che sono stati centrali per la sua interpretazione del mondo greco. -
Vita di Enrico Ibsen
Non creda il lettore di trovare soltanto una rapida biografia di Ibsen in questa Vita, che qui compare per la prima volta in forma di libro. Vi troverà anche e soprattutto tutt’altro: una scintillante sequenza di divagazioni che hanno, al loro centro, un tema: la donna e il femminismo. In anni (è un testo del 1943) in cui non solo questi temi non erano attuali, ma molti sembravano addirittura averne dimenticato l’esistenza, Savinio li affronta con una lucidità, un’ironia, una chiaroveggenza che sono tutt’oggi sbalorditive. L’arte della biografia è davvero per lui un «gioco segreto», che gli permette incursioni imprevedibili, e spesso esilaranti, in tutte le direzioni. E anche nella direzione di se stesso. Così, dietro il profilo di Ibsen «il costruttore», disegnato con un sentimento insieme di complicità e di irriverenza (giungendo a una punta sublime là dove Savinio invita Ibsen a propugnare la causa della liberazione dei morti: «È ora di fare per i morti quello che tu hai fatto per la donna»), intravediamo quello di Savinio stesso, il quale finirà per confessarglisi: «Nello scrivere la tua vita non avevo l’impressione di scrivere una vita ma mi pareva di scrivere la mia propria». Questo spiega la quasi insolente intimità che Savinio dichiara di avere con Ibsen, e che dà un sapore così penetrante a queste pagine: «Che altro ti ho da dire, Enrico? Coloro che leggeranno questa tua vita scritta da me, diranno che della tua vita si dice ben poco e si fanno invece molte divagazioni. Perché non sanno. Non sanno che queste “divagazioni” sono invece le cose che tu stesso ti ripromettevi di dire quando la morte ti rapì, e ora finalmente hai potuto dire per mezzo mio». Vita di Enrico Ibsen apparve per la prima volta a puntate sul periodico «Film» tra il maggio e il luglio 1943. -
Uomini tedeschi. Una serie di lettere
Pubblicato da Walter Benjamin nel 1936 sotto lo pseudonimo di Detlef Holz, presso una piccola casa editrice svizzera, questo libro diventò presto una leggenda. Mentre il nazismo aveva trasformato la Germania nell’incubo del mondo, un esule tedesco come Walter Benjamin componeva questa antologia commentata di lettere di «uomini tedeschi», alcuni gloriosi – da Lichtenberg a Hölderlin, da W. Grimm a Büchner, da Brentano a Goethe –, altri del tutto ignoti (ma qui in tutto all’altezza dei grandi), a testimoniare di una linea di civiltà, di un costume di vita che erano peculiarmente tedeschi, epperò i più incompatibili col nazismo: ricordo di una costellazione abbagliante, che aveva traversato gli ultimi anni dell’Illuminismo, il Romanticismo e il Biedermeier, per inabissarsi poi negli anni di Bismarck. Opera di Benjamin sono la scelta, il montaggio e la presentazione dei testi: ma, nelle mani di un tale eminente stratega delle forme, quella che poteva essere una comune antologia diventa una delle sue opere più personali e più audaci. Paradossalmente, proprio questo oscuro lavoro didattico può essere letto come una delle più compiute manifestazioni del pensiero di Benjamin, nel senso che ha precisato Adorno in poche righe del bellissimo saggio che accompagna questo libro: «Così come Benjamin negli ultimi anni della sua vita vagheggiò l’idolo di non scrivere una sua filosofia, ma piuttosto di “montarla” con materiali che parlassero da sé, rinunciando così, per quanto possibile, a interpretarli, in ugual modo ha proceduto in questa raccolta di lettere. La scelta e la disposizione delle lettere devono lasciar trasparire la sua filosofia, senza costringerla in una forma concettuale che la contraddirebbe». -
Il navigatore del diluvio
All’età di cinquecento anni, Noè, che sino allora non aveva avuto figli, genera a breve distanza Sem, Cam e Iafet. Poco dopo Dio lo chiamerà per rivelargli un segreto e proporgli un «patto»: l’umanità è condannata a perire nel diluvio, salvo lui e i suoi figli. Ma perché Dio si rivolge proprio a Noè? E qual è il fine di questo «compromesso»? Quale vantaggio trae Dio dal diluvio? In questo suo «saggio romanzato» – come lo ha definito Karl Kerényi – Mario Brelich ci ha dato un primo esempio di quella sua lettura maliziosa e acuminata della Sacra Scrittura intorno a cui ruota tutta la sua opera. Ciascuno dei suoi libri scopre in quei testi qualcosa che tutti sembrano aver trascurato: e da lì parte una ricostruzione che dà una singolare vivezza e spessore a quegli augusti personaggi. Con un lieve sorriso agli angoli della bocca, Brelich ci spinge inesorabilmente a riscoprire, tolto ogni velo moraleggiante, la terribile realtà di quelle storie: ogni volta si tratta di un momento critico, paradossale, tragico e ironico al tempo stesso nella lunga vicenda fra il Dio biblico e l’uomo, di uno di quei momenti in cui Dio decide di scrollarsi dalla sua sonnolente onniscienza per regolare in nuovi termini i suoi rapporti con l’umanità. Noè segna il primo di questi «patti»: un amaro accordo che sigilla il definitivo allontanarsi dell’uomo dal Paradiso, attraverso una sorta di iniziazione a rovescio, che si compie nell’arca, nel «fecondo stato di morte della tomba galleggiante». Ma anche l’uomo ha le sue malizie: alla fine, scoprendo il vino, l’indecenza e l’ubriachezza, Noè risponderà alla divina perfidia tenendo fermo al ricordo di quella «ebbrezza dell’essere» che darà al Signore nuove complicazioni con l’umanità, quali Brelich ha già raccontato nelle successive puntate del suo feuilleton metafisico: Il sacro amplesso e L’opera del tradimento. -
Giù in fondo
Una giovane donna traversa, durante la guerra, il confine spagnolo per sfuggire ai tedeschi, viene risucchiata in angosciose avventure e infine si ritrova in un manicomio che è teatro di fatti stupefacenti. Una scatola di cipria, il rossetto, la bottiglia di acqua di Colonia diventano astri di un cosmo in preda alle metamorfosi. Un complotto infernale ordisce trappole. Una cappa di ipnosi grava sul mondo. Le cose hanno perso la loro naturale opacità: tutto ha senso, tutto rimanda a tutto, tutto esige feroci e matematici rituali. Una colla erotica si attacca agli oggetti e ai personaggi. Giù in fondo, come ha scritto Breton, è la storia di «uno di quei viaggi da cui si hanno poche probabilità di tornare», raccontato con «precisione sconvolgente». Leonora Carrington ci accompagna «giù in fondo» nella follia come in un giardino di orrori e meraviglie – e ci riconduce indietro appena in tempo perché sia evitato, ci dice, «il disastro nella liberazione dello spirito». Questo piccolo libro, di un’intensità ammaliante, è un frammento di quella prosa che i surrealisti avrebbero voluto scrivere e non hanno quasi mai scritto. Come pochi altri, la Carrington sa guardare tutto con un doppio sguardo: il mondo che si pretende normale con lo sguardo folle e il mondo folle con lo sguardo sobrio, come se fosse – osservava ancora Breton – «munita di un permesso di circolare a volontà nei due sensi». -
Una biblioteca della letteratura universale
Per molti il mondo dei libri è una foresta ostile, troppo folta. Sentono che lì si celano quelle pagine che sarebbero per loro preziose, ma disperano di trovarle. Per questo essi vorrebbero essere guidati fra i libri. Ma pochissimi sanno essere loro d’aiuto: nei saggi qui raccolti dimostra di aver avuto in grado eminente quel dono Hermann Hesse, uno scrittore che continua a farsi amare da schiere di lettori e, oltre tutto, uno scrittore che aveva «letto tutti i libri». Con mano ferma e gesto intimamente gentile, Hesse introduce in questi suoi saggi alla «magia del libro». Spiega con limpidezza che cosa significhi incontrare un libro – evento che può essere non meno complicato e fatale dell’incontro con una persona. E ci aiuta, con discrezione e precisione, nel passo più delicato: la formazione della nostra biblioteca. Consiglia i testi inevitabili, ma con poche parole che ci rendono subito evidente perché dobbiamo conoscerli; e ci consiglia anche libri più segreti, che però per lui sono stati decisivi – invitando così ogni lettore a scoprire la propria fisionomia nella biblioteca che a poco a poco si costruisce. Il lettore che voglia iniziarsi all’arte sottile di scegliere i libri per sé troverà qui le indicazioni di un amico sapiente e del tutto privo di quel sussiego che molti ancora associano con la cultura. Alla fine non vedrà più i libri come un’angosciosa, sopraffacente molteplicità: «da innumerevoli lingue e libri di tanti millenni, da questo mostro mitologico dalle mille teste, quella di cui il lettore, nei suoi momenti di grazia, avverte su di sé lo sguardo è una chimera strana, sublime, più che reale: è il sembiante dell’uomo, da mille tratti contraddittori magicamente ricomposto». -
Legge e caso
Scienza e dominio si intrecciano ormai in modo inestricabile. Ma «perché il dominio non deve essere esercitato? ed esercitato senza limiti? Forse perché finisce col violare i diritti dell’uomo? Ma quale conoscenza è ormai in grado di mostrare i veri diritti e di stabilire il vero limite che divide il diritto dalla stortura dell’uomo?». Con queste domande felicemente provocatorie, Severino avvia un’indagine stringente e acutissima, che vuole isolare il senso specifico in cui oggi la scienza parla di legge e di caso – e insieme risalire alla sua lontana origine, che è nella nascita del pensiero greco. Perché lì si forma la tensione che attanaglia tutto il pensiero dell’Occidente: da una parte l’affermazione inaudita del divenire in quanto «irruzione dell’imprevisto», in quanto caso che dal niente passa all’essere – e non solo è imprevisto ma imprevedibile, perché «è impossibile una previsione del niente»; dall’altra la radicale «volontà di salvarsi dalla minaccia di divenire», che si esprime nell’epistéme, in quanto esorcismo conoscitivo che si fonda sull’«incantesimo degli immutabili». Ma quest’ultima forma della conoscenza si è rivelata inadeguata di fronte all’avida volontà di dominio della scienza: anche le ultime larve di «immutabili», segnali di una verità incontrovertibile, sono state dissolte da una speculazione e da una pratica tecnica con cui la scienza raggiunge oggi «la forma più radicale di dominio proprio perché si espone al caso, cioè distrugge gli immutabili che lo rendono impensabile». Ma così si afferma anche «l’alienazione più abissale»: «la persuasione e insieme la volontà che le cose della terra, in quanto cose, siano niente». È un percorso lucidissimo, di bruciante evidenza, in cui Severino ha addensato molti temi che il suo pensiero sta articolando ormai da anni. Il libro contiene anche un lungo saggio su Carnap. -
Cinque donne amorose
«Racconti del mondo fluttuante» (ukiyo-zoshi): così si definiva nel Giappone del Seicento il genere letterario a cui appartiene questo grande classico, qui tradotto per la prima volta in Italia. Ihara Saikaku fu maestro ineguagliato dell’ukiyo-zoshi: avido di particolari e di concretezza come un Balzac orientale, svelto e netto come un Maupassant, con lui l’arte del narrare irrompe nella vita di tutti i giorni, mescolando il pathos all’ironia. In queste sue storie le fascinose figure delle stampe giapponesi fra diciassettesimo e diciottesimo secolo escono dai loro rotoli e si muovono davanti a noi: per strade formicolanti, nei quartieri del piacere, nelle botteghe dei mercanti, sui percorsi dei pellegrinaggi, fra paraventi e guanciali. Giovinette e mezzane, mercanti e libertini, monaci e cortigiane: i loro destini si incontrano, si intrecciano, si ramificano, si dissolvono – con piccoli tocchi, con sapienti stacchi, rapidi mutamenti di scena. Sono uniti dal fatto di viaggiare sui «battelli carichi di tutti i nostri desideri» e da quel senso penetrante dell’impermanenza che avvolge come una patina preziosa ogni forma di vita del Giappone. Ciò che preme a Saikaku è lo scoccare, fra questi disparati destini, della passione erotica: amori che spesso si sprigionano da un minimo gesto, da una furtiva apparizione – e presto sono catturati nella rete sottile e smisurata dei divieti, degli usi, delle cerimonie. Allusioni, sotterfugi, travestimenti, equivoci, fughe, stratagemmi accompagnano così queste storie, dove è altrettanto acuto il sapore dell’animalità e quello dell’etichetta, dove l’esito è facilmente funesto. Le vicende raccontate da Saikaku sono realmente accadute. Un giorno questi suoi amanti sono stati realmente condannati a morte, si sono suicidati o si sono insperatamente riuniti. Pochi anni dopo Saikaku, come un suo memorabile libertino, colleziona quelle lettere d’amore, quelle maniche di kimono, quelle sottovesti rosse, quelle ciocche di capelli, quei ritagli di unghie, quegli amuleti perduti e rinchiude tutto in quel «magazzino del mondo fluttuante» che è la sua prosa. Da lì quelle vicende usciranno poi trasformate in fantasmi, in leggende tramandate di bocca in bocca, corrose dal tempo, intrise di pianto come le maniche di tante sue «donne amorose». La sua narrazione, cosparsa di sapidi, asciutti commenti («Nulla è più agghiacciante delle donne» sentenzierà una volta, ma i suoi personaggi femminili sono i più accattivanti), ci sbalza continuamente dal grottesco al tragico, dalla crudeltà alla dolcezza, finché tutte le storie si avviano ugualmente a sciogliersi nel «mondo di rugiada». Ciò che rimane è schiuma e fumo. Presentati con una corposità iperreale, i personaggi di Saikaku acquisiscono così alla fine una sottile evanescenza, come una delle sventurate amanti da lui celebrate, di cui «ancora adesso par di vedere l’immagine della veste azzurro pallido che essa indossava quell’ultimo mattino», quando fu condannata a morte insieme al suo amato. -
Scritti su Nietzsche
«Chiunque abbia letto qualche pagina di Nietzsche si è sentito scandagliare in profondità, si è sentito provocato a dare il proprio assenso su una questione scottante: alcuni non perdonano questa invadenza, altri rimuovono l’impressione, altri reagiscono con ardente partecipazione»: così scriveva Giorgio Colli nel presentare quella edizione critica di Nietzsche, da lui approntata insieme a Mazzino Montinari, che ha permesso di leggere migliaia di pagine inedite e di svelare una volta per tutte le falsificazioni subite da quei testi. Colli si è esposto per tutta la sua vita allo «scandaglio» nietzscheano: nel suo paesaggio del pensiero gli ultimi, fra i pochi, che avevano risposto alla sfida dei sapienti della Grecia arcaica erano Schopenhauer e Nietzsche. In questi scritti lo vediamo seguire fin nei più minuti segmenti la frastagliata sequenza delle opere di Nietzsche, soppesarle ogni volta in ciò che di inaudito introducevano così come nei ripiegamenti che testimoniavano, accompagnarle tra euforie e depressioni, azzardi teoretici e furie immoralistiche, scorribande letterarie e squarci di vaticinio. Parla qui un’assoluta intimità con quel pensiero – e insieme la distanza che permette di giudicarne i passaggi dal punto di osservazione di un altro pensiero: quello di Colli stesso, che è destinato a stagliarsi sempre più nettamente nella sua solitaria grandezza. E proprio in questa compresenza, nel commentatore, di «ardente partecipazione» e del «pathos della distanza» riconosciamo un tratto profondamente congeniale all’autore commentato. In tutta la sterminata bibliografia nietzscheana sarebbe difficile trovare una serie di scritti che costituiscano una migliore ‘introduzione’ a Nietzsche. -
De profundis
Fra il giugno 1944 e l’aprile 1945, rifugiato in una casa di famiglia nel basso Friuli, Satta scrisse queste pagine, cariche di sarcasmo e profonda amarezza, nel tentativo di risalire a certe ragioni nascoste della paradossale, atroce storia italiana dei vent’anni precedenti. E subito si poneva due domande inevitabili: perché gli italiani avevano accettato, e nella stragrande maggioranza sostenuto, il fascismo? E perché, una volta spinti nella guerra, quegli stessi italiani avevano subito sperato nella sconfitta? Più che sul ripugnante manipolo dei veri fascisti, attori occasionali e brutali, ma sempre accompagnati da una «scia di ridicolo», l’occhio di Satta si fissava sulla figura dell’«uomo tradizionale», il medio cittadino di stampo ottocentesco, attaccato alla libertà soltanto come «garanzia del privilegio»: era lui che l’aveva subito ceduta al fascismo, impaurito dagli squarci che si erano aperti nel vecchio ordine; era lui che aveva accettato la «servitù per non morire». Così, quando l’ultima guerra aveva rivelato la sua natura di «spettacoloso omicidio rituale», quello stesso «uomo tradizionale», figura ormai grottesca e stravolta, ma pur sempre universalmente diffusa, preso dal panico si era buttato a sognare l’impossibile restaurarsi di un vecchio ordine che ancora una volta lo tranquillizzasse. Questa è la durissima, cupa visione che Satta ci presenta: traversata da continue, e talvolta sgradevoli asprezze, è sostenuta da una vena di grande moralista nero, oltre che dalla dolorosa asciuttezza del narratore che si sarebbe poi rivelato col Giorno del giudizio. -
La lingua salvata. Storia di una giovinezza
Fin dal suo apparire, nel 1977, questa «storia di una giovinezza» è stata accolta da molti come un «classico immediato», uno di quei libri destinati a restare, che coinvolgono profondamente ogni specie di lettori. Con la sua prosa limpida, tesa, vibrante in tutti i particolari, Canetti è qui risalito ai suoi ricordi più remoti, cercando di ritrovare nella propria vita quella difficile verità che solo il racconto può dare. Dopo aver vagato per decenni fra migliaia di miti, di fiabe, di trame, si è rivolto a quell’unica storia che per ciascuno di noi è la più segreta ed enigmatica: la propria. È una storia che comincia in una piccola città sul basso Danubio, dove «in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue». In quella variopinta mescolanza di genti erano da tempo insediati i Canetti, dinastia di agiati commercianti ebrei di origine spagnola, tutti segnati da un forte «orgoglio di famiglia». Fra i primi ricordi incontriamo quello del grande magazzino del nonno, in cui si vendevano coloniali all’ingrosso, con il suo «odore meraviglioso», con i suoi sacchi di lenticchie, di avena, di riso, dove il bambino affondava le mani. Da quello scenario arcaico e variegato, commisto di Oriente e di Occidente, il cui sapore intride tutte le primissime esperienze del piccolo Elias, si verrà sbalzati, nel giro di pochi anni, in vari altri mondi: prima l’Inghilterra, dove si delinea la figura del padre, che lì muore improvvisamente, giovanissimo; poi Vienna, con lo scoppio della prima guerra mondiale, e infine Zurigo, il «paradiso» da cui Canetti sarà cacciato, adolescente, alla fine del libro. In tutte queste peregrinazioni vedremo svilupparsi un rapporto madre-figlio di una tale intensità, violenza, sottigliezza che potrebbe anche apparire inverosimile, se ogni parola non avesse il «suono giusto». Canetti è qui riuscito nell’impresa di trasporre la figura della madre dalla sempre dubbia verità delle «memorie» alla verità assoluta della letteratura. Una passionalità smisurata lega questi due esseri, e il bambino di cui qui si racconta conosce in pochi anni, nel rapporto con la madre, tutti gli estremi della tenerezza ma anche della gelosia, della dedizione ma anche del feroce conflitto. E intanto assistiamo al nascere in lui di quella avida vocazione che poi lo accompagnerà sempre: innanzitutto nel rapporto con il linguaggio e con la parola scritta. Rapporto di superstiziosa venerazione, come di fronte a immense potenze cosmiche. Così la scoperta dei libri, degli scrittori, la scuola stessa – tutto si presenterà come uno di quegli appassionanti resoconti di esploratori che allora i bambini usavano leggere. E il ricordo si fermerà, via via, su una costellazione di scene, di personaggi, di apparizioni che mantengono nella scrittura l’intatta vivezza, l’emozione sospesa e irripetibile di ciò che succede per la prima volta. -
La grande triade
«Il Cielo copre, la Terra sostiene» dice un’antica sentenza cinese. Il cielo è la «perfezione attiva», la terra è la «perfezione passiva». «Cielo, Terra, Uomo» (Tien-ti-jen), ecco la Grande Triade che Guénon volle illuminare in questo suo ultimo libro, pubblicato nel 1946. Invece di affermare in termini generali la corrispondenza esoterica delle tradizioni, volle qui far vedere in concreto che cosa è tale corrispondenza e in quali modi essa si articola, mostrandone ogni volta un aspetto, come la faccia di un cristallo, nei brevi, magistrali capitoli di quest’opera, che appunto perciò può essere vista come la summa e il simbolo essa stessa del pensiero di Guénon. Lo yin e lo yang, la doppia spirale, il solve e coagula dell’alchimia, i numeri celesti e i numeri terrestri, i rapporti fra l’essere e il suo ambiente, l’Essenza e la Sostanza, l’autorità sacerdotale e l’autorità regale, l’Invariabile Mezzo e la Via del Mezzo, il simbolismo massonico della squadra e del compasso e quello cabbalistico della Shekinah, la ruota cosmica: ciascuno di questi temi è di immensa ricchezza. Tanto più stupefacente apparirà l’impresa che Guénon ha qui compiuto: pur facendo presagire ogni volta tutta la complessità e peculiarità di queste immagini, le ha fatte risuonare nella loro essenza, le ha rese trasparenti con poche, sobrie e decisive parole, così inanellandole in un’aurea catena, dove il vincolo è invisibile e indissolubile. -
Ritratti immaginari
I Ritratti immaginari (1887) ci appaiono oggi non solo come l’opera più perfetta di Walter Pater, ma come la più adatta a introdurci, per vie umbratili e sinuose, al segreto della sua visione. Maestro della Decadenza in terra inglese, appartato monaco del Bello, Pater non riusciva a osservare la storia senza trasmigrarvi, immettendo un «fremito tutto moderno in persone e cose del passato» (Praz). Dietro la maschera di squisito dilettante, era una sorta di sciamano degli oggetti, delle tracce e delle «occasioni sensibili». Anche se il ritegno e il pudore lo imbrigliavano, la sua tentazione non era lontana da quella di Nietzsche negli ultimi giorni di Torino: essere «tutti i nomi della storia». Così questi Ritratti immaginari, oltre che una superba galleria di figure trascorrenti dalle fêtes galantes di Watteau a una Germania invasa dall’«aurora apollinea» e all’Olanda dei limpidi interni seicenteschi, sono una autobiografia indiretta e cifrata, dove un io multiplo si riflette su screziate superfici. Dal Fanciullo nella casa, mirabile anticipazione del Proust che rivive Combray, al Denys l’Auxerrois, crudele, ebbra apparizione di un Dioniso «in esilio» (secondo la formula di Heine) nella Francia medioevale, sino alla furia astratta e annientatrice del giovane spinoziano Sebastian van Storck, in tutti i personaggi di questa fantasmagoria avvertiamo un’occulta aria di famiglia, un accento di «perversa malinconia». -
Dizionario dei luoghi comuni-Album della marchesa-Catalogo delle idee chic
A nove anni, Flaubert scriveva in una lettera dall'ortografia incerta: «siccome c'è una signora che viene da papà e ci racconta sempre delle sciocchezze le scriverò». La morte lo avrebbe colto mentre continuava ancora a trascrivere le gesta della Stupidità nell'incompiuto Bouvard e Pécuchet. E durante tutta la vita di Flaubert l'immagine della Stupidità, sotto la possente spinta dei tempi, si era continuamente dilatata dinanzi ai suoi occhi: non più soltanto attributo inestirpabile della specie umana ma Potenza Cosmica, l'etere che ormai avvolgeva qualsiasi parola fosse pronunciata: le chiacchiere della comare e le relazioni dell'accademico, gli appelli del politico e le sentenze del farmacista, le similitudini dei lirici e i protocolli degli scienziati. Si trattava ormai di una nuova Lingua Universale, tutta composta di Frasi Fatte, cui mancava però ancora un dizionario. Flaubert per decenni sognò di scriverlo egli stesso. Così descriveva il progetto, in una lettera del 1852 a Louise Colet: «Credo che l'insieme sarebbe formidabile come il piombo. Bisognerebbe che in tutto il libro non ci fosse una parola mia, e che, una volta letto il dizionario, non si osasse più parlare, per paura di dire spontaneamente una delle frasi che vi si trovano». Di quell'immenso progetto, che doveva confluire nella seconda parte del Bouvard e Pécuchet, rimane il prezioso frammento che qui pubblichiamo, insieme con altri due ad esso affini: l'Album della Marchesa e il Catalogo delle idee chic. La traduzione e l'introduzione sono di uno scrittore singolarmente congeniale a Flaubert: J. Rodolfo Wilcock. -
Teatro da camera. Temporale-Casa bruciata-Sonata di fantasmi-Il pellicano-L'isola dei morti-Il guanto nero
Nei primi mesi del 1907, dopo una già lunga e accidentata carriera di autore drammatico, Strindberg si trovò a disporre di un teatro dove mettere in scena sue opere vecchie e nuove: il Teatro intimo di Stoccolma, creato sul modello del Kammerspielhaus di Max Reinhardt. Per questo teatro egli scrisse, in soli sei mesi, un gruppo di opere che rappresentano, in ogni senso, la punta estrema della sua produzione drammatica: articolate come una serie di composizioni musicali (Opus 1, 2, 3, 4), Temporale, Casa bruciata, Sonata di fantasmi, Il pellicano (a cui fece seguito, a distanza di un anno e mezzo, Il guanto nero, Opus 5) rielaborano e condensano al massimo grado alcune grandi ossessioni che hanno accompagnato la vita di Strindberg. La casa, il fuoco, la resa dei conti, motivi simbolici che erano già costantemente presenti in tutta l’opera precedente, vengono portati nel «Teatro da camera» a un confronto ultimativo, che si impone con la lucidità dell’allucinazione. In questi testi, come in molte parti dei romanzi autobiografici, la visione parossistica, surriscaldata di Strindberg sembra non sopportare la distanza dell’immagine, brucia la metafora per trasformarla in lettera, e viene così irretita nella fatalità della lettera, in una partita inesorabile di dare e avere, dove ogni segno, anche il più incongruo e irrelato, sposta la bilancia di una macchinosa contabilità cosmica. Arrivato all’ultima fase della sua vita, Strindberg accentua sempre di più la sua caratteristica capacità di passare fulmineamente attraverso forme nuove, senza soffermarsi, portato da una passione che guarda oltre il risultato letterario, preoccupato di sgombrare lo spazio per una sola scena, impossibile e sempre latente: il terribile risveglio di un universo di sonnambuli. -
Luoghi sotto spirito
«Luoghi sotto spirito»: sono Corfù, Londra, la Nigeria, Bournemouth. Gerald Durrell li estrae dalla capace sacca dei suoi ricordi e ce li mostra con quella amabile grazia, con quello humour ben temperato che lo hanno reso uno scrittore amato in tutto il mondo. Incontreremo così una nuova avventura della sua celebre «famiglia» nelle acque di Corfù e personaggi indimenticabili come Ursula, una procace fanciulla, che parla continuamente senza sapere il significato delle parole che usa, o il colonnello Anstruther, che si dedica a grandiose battaglie con i soldatini di stagno. Così come non dimenticheremo le centocinquanta «incantevoli tartarughine d’acqua dolce» che si nascondono sotto i sedili di un bus londinese o il temibile serpente mamba che precipita da un gigantesco ventilatore di foglie di palma sulla tavola imbandita di una cena in onore di un funzionario coloniale. Sono frammenti di vita che nella prosa di Durrell conservano tutta la loro fragranza comica, sapidi episodi tratti dal ricco campionario zoologico e antropologico di uno dei rari scrittori di oggi che sappia comunicare ai suoi lettori una grande virtù: l’allegria. -
Poesie
Quando, nel 1958, Rodolfo Wilcock si stabilì in Italia, aveva già pubblicato a Buenos Aires sei raccolte di liriche e vi era noto come un giovane scrittore della cerchia di J.L. Borges. Allora, in brevissimo giro di tempo, Wilcock cambiò insieme lingua e pelle: e riapparve come un poeta che immetteva nella lirica italiana un inaudito timbro agrodolce, una maestria alessandrina, una capacità di sprezzatura tale da spingerlo – una volta «letti tutti i libri» – a tentare le rime più antiche, più elementari, più proibite. Come Kavafis, come Penna, Wilcock è stato uno dei rari poeti moderni che abbiano saputo comporre un canzoniere d’amore (si veda lo stupendo Epitalamio o l’Italienisches Liederbuch). Come il suo maestro Borges, Wilcock ha talvolta scelto di enunciare in versi i più acuminati aforismi, così reinventando una sua poesia gnomica. Letta oggi in questo volume, che la comprende in tutto l’arco, da Luoghi comuni (1961) sino a un gruppo di limpide poesie postume (e con l’aggiunta di una scelta dalle Poesie spagnole), l’opera poetica di Wilcock in italiano apparirà come la zona più segreta e felice di una multiforme attività di scrittore: appartata, fuori da ogni ‘linea’, naturalmente elegante, alleggerita da sempre di ogni zavorra ideologica (l’amato Wittgenstein serviva a Wilcock come barriera contro la banalità mentale), essa testimonia di una rara sapienza letteraria e di una ancor più rara saggezza psicologica, quella che «non è un dono degli anni / bensì una qualità aristotelica / che si ha o non si ha fin dalla nascita, / un equilibrio fra il fattibile e l’impossibile, / una conoscenza previa alla conoscenza». Ed era appunto quella saggezza che permetteva a Wilcock, sempre parlando con le sue parole, una «gioiosa e melanconica accettazione / dell’umana effimera fantastichezza». -
Sentenze e colloquio mistico
Le Sentenze di Ibn ‘Atā’ Allāh sono state definite «l’ultimo prodigio del sufismo sulle rive del Nilo». Scritte verso la fine del secolo XIII da colui che era la guida di una importante confraternita mistica, la shadhilita, esse ci appaiono quali sobrie folgorazioni, che hanno il potere di «costringere l’intelligenza alla meditazione». E come tali sono state lette e commentate per secoli. Fedele della più peculiare vocazione islamica, quella dell’abbandono, Ibn ‘Atā’ Allāh scalza qui, con una sottigliezza e una precisione stupefacenti, ogni pretesa dell’Io a governare se stesso. Oggi, in mancanza di altri termini, si direbbe che è un grandissimo psicologo. Ma in Ibn ‘Atā’ Allāh sapienza dell’analisi ed esperienza dell’ebrezza si fondano l’una sull’altra. Così alle Sentenze fa seguito il Colloquio mistico, visionario e vibrante, evocazione di una totale assenza e di una totale presenza: «Egli fa apparire ogni cosa perché è nascosto, e nasconde ogni cosa perché è palese».