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Messico
Nel 1930, Cecchi insegnava in California. Pensò di scendere verso il Messico. Fu un viaggio infero, anche se il viaggiatore tentava di nasconderlo, con la sua urbanità ironica e nemica dell’enfasi. Ma si accorse subito che nessun sapido detto toscano avrebbe potuto arginare l’invadenza delle visioni. A Hollywood, il suo sguardo si sofferma su Buster Keaton, «che cammina sbadato, inciampando nei detriti di un mondo capovolto». E subito cerca un allevamento di alligatori, centinaia di creature catafratte, di ogni dimensione, che guardano il visitatore «con l’occhio dell’ergastolano». Poi si spalanca il Messico: chiuso nella sua maschera di ossidiana, sotto un cielo che «preme come una campana di vetro opaco» e dà alle cose «una virulenta luminosità d’agonia», la realtà più impenetrabile, la più insolente per un artefice della prosa devoto al nitore della Firenze rinascimentale. Una realtà che al suo centro, nelle piramidi del Sole, sembra offrire soltanto «diavoli, infamità e lutti». Eppure Cecchi, dietro le quinte di se stesso, non aspettava, non cercava altro che questo. E il risultato è Messico, «a rigore il più bel libro di Cecchi» (Gianfranco Contini). -
Sermoni tedeschi
Contemporaneo di Dante, Meister Eckhart divise la sua vita fra la predicazione e l'insegnamento della teologia, di cui fu magister a Parigi. Come per Dante, si può dire che la sua opera abbia avuto una funzione fondatrice in rapporto a una lingua. È appunto nei suoi sermoni in volgare che la lingua tedesca appare per la prima volta innervata dai termini della speculazione metafisica, che ritroveremo sino a Hegel e a Heidegger. Si può dire che tutta la grande filosofia tedesca, a partire dal Rinascimento, persegua un continuo e più o meno occulto dialogo con Eckhart. Ma in lui la potenza della riflessione si offre quasi come un dono della sua sovrabbondante vocazione religiosa. Con una naturalezza che non finisce di stupire, Eckhart illumina nei suoi Sermoni le immagini elementari, quelle che appartengono all'esperienza anche del più umile tra i suoi ascoltatori, e insieme le collega e articola senza perdere nulla della sua tensione speculativa. È propria di Eckhart, come dei più grandi mistici, la massima concretezza, la virtù di seguire la vita e la crescita delle immagini con l'amorosità di un giardiniere. Ed è propria di Eckhart anche l'audacia del «distacco», la capacità di guidare la teologia negativa verso la vertigine del nulla, con un gesto radicale che ricorda certi testi buddhisti. Allora lo slancio estatico si spinge sino all'estremo desiderio di liberarsi da Dio: «Perciò preghiamo Dio di diventare liberi da Dio, e di concepire e godere eternamente la verità là dove l'angelo e la mosca e l'anima sono uguali: là dove stavo e volevo quello che ero, ed ero quel che volevo». -
Nanda il bello (Saundarananda-Mahakavya)
«Ebbro di forza, bellezza, giovinezza», Nanda teneva uno specchio dinanzi al volto dellamata Sundari, mentre lei si disegnava il trucco e giocavano insieme. Entrò nel palazzo un monaco per la questua. Nessuno lo vide, perché tutti si occupavano dei «passatempi amorosi e fatui del loro signore». Quel monaco era il Buddha, fratello di Nanda. Da quel momento, come un abile uccellatore, il Buddha comincia a tirare a sé la sua preda: costringerà il fratello alla Liberazione. Nanda è perfetto esemplare delluomo naturale, nella sua versione più disarmante e incantevole. Fin dallinizio splende di «maestà graziosa» e le strofe di Asvaghosa ce lo raffigurano come un nobile animale in una foresta smaltata. Il richiamo alla Liberazione gli è affatto estraneo, tutto il suo essere recalcitra. Mentre si avvia dal fratello, «per indecisione non andava e non restava, come oca reale che nuoti sulle onde». Ormai non vede più Sundari, che gli ha chiesto di tornare prima che il trucco si asciughi, ma gli trafigge il cuore un suono: è il «tintinnio delle cavigliere» di lei. Eppure Nanda giungerà alla Liberazione. Ciò che Asvaghosa ci mostra è la storia di un mirabile irretimento nella salvezza. Le gesta del Buddha e Nanda il Bello sono le due valve di una stessa conchiglia: ma le Gesta sono lepos di una conquista, Nanda è il romanzo del viaggio di un uomo come tutti, anche se più bello di tutti, di là dal piacere, di là dal paradiso, di là dal deserto della trasmigrazione. Per un lettore di oggi, che è un uomo naturale come Nanda, anche se forse non vive come lui in un «nido di diletto e di gioia», questopera è loccasione per seguire passo per passo un insegnamento che scompone e ricompone le parti della nostra mente, e della nostra vita, come un complicato giocattolo. Asvaghosa, amabile poeta, tessitore di immagini fragranti, scrisse questopera «mirante alla quiete interiore» obbedendo alla «legge dellarte», perché il miele della poesia avvolgesse la salutare amarezza della dottrina e riuscisse ad «attirare i lettori che avessero mente ad altro». Questa è la prima edizione italiana di Nanda il Bello. -
Ebrei erranti
In questo libro appassionante, un reportage che non sapeva di essere un’ultima celebrazione di una grande civiltà alla vigilia della sua scomparsa, Roth ci parla di quegli ebrei orientali ai quali egli stesso apparteneva. E ce ne parla «con amore invece che con quella ‘obiettività scientifica’ che è anche detta noia». Il suo presupposto è «la folle speranza che esistano ancora lettori davanti ai quali non sia necessario difendere gli ebrei orientali». Con lo sguardo del grande narratore, Roth osserva quella formicolante vita, torturata ed estatica, che donò all’Europa un sapore inconfondibile, acutissimo. Nessuno spirito nazionale era riuscito a elaborare così mirabilmente il senso della complicazione, dell’irresolubile groviglio dell’esistenza come lo spirito degli ebrei orientali, chiusi nelle loro cittadine o sparsi per il mondo in una perpetua migrazione. Dietro ognuno di questi ebrei si intravede la figura del rabbino che «in un anno ascolta i destini più strani, e nessun caso è tanto complicato che egli non ne abbia udito uno ancora più intricato». È un mondo che Roth, più di ogni altro, ha saputo raccontare con partecipazione e lucidità anche crudele. Queste pagine ripopolano davanti ai nostri occhi, con la magia della parola, quella parte dell’Europa dove oggi di ebrei quasi non ne rimangono più e continua a regnare indisturbato l’antisemitismo. -
Voci
«In Voci, il mio libro di memorie, mi sono sforzato di cogliere la verità delle mie varie vittime, così come ho tentato di cogliere la fugace iridescenza delle mie farfalle. Ma, nello sforzarmi di cogliere quella verità, mi sono sorpreso a brancolare in un paesaggio di fantasmi meravigliosi, quel fregio sonnambolico di silhouettes erranti e di sfondi mutevoli che compone il nostro ‘passato’. Per essere veritieri, bisogna sempre mentire un poco, così come per mentire bisogna essere un poco veritieri. E il passato non risuscita che in un chiaroscuro onirico dove gioia e dolore diventano le maschere molteplici che celano i volti e le voci degli anni scomparsi per sempre, con il solo fine di riapparire in un nuovo camuffamento» - Frederic Prokosch. Fin da ragazzo, Prokosch elaborò un’arte sottile nello stanare gli scrittori che amava. Li sorprendeva ogni volta nel luogo giusto e al momento giusto, registrava, implacabile, le loro battute e oggi, a distanza di decenni, ce le ripropone in minuscoli pastiches, dove con sbalorditivo mimetismo viene fatto riecheggiare lo stile di ogni singolo autore – stile della pagina e della persona. Leggere questo libro, scritto da un sapiente romanziere e collezionista di farfalle, che ha attraversato il secolo con gli occhi, e gli orecchi, ben aperti, vuol dire ripercorrere, esilarati e leggeri, tutta la letteratura del Novecento. Già un parziale elenco degli incontri qui raccontati può dare un’idea della sovrabbondante ricchezza di queste memorie, anche se soltanto la lettura ci confermerà quanto sia giustificata la pretesa di Prokosch in questo suo libro: «penetrare nella natura segreta dei fluidi che finiscono per addensarsi in opere d’arte». Ben intagliate come altrettanti cammei, le scene raccontate da Prokosch accompagneranno d’ora in poi la nostra immagine di certi autori, qui amabilmente costretti a rivelarsi. Eccone alcuni: Virginia Woolf nel suo antro della Hogarth Press; Auden che parla di Kafka in un bagno turco; James Joyce in visita nella libreria di Sylvia Beach; Wallace Stevens che parla di squash; E.M. Forster sul prato del King’s College; Walter de la Mare che evoca elfi e fantasmi; Brecht in un bar a New York; Thomas Wolfe alle prese con le bacchette in un ristorante cinese; Gide in vestaglia di velluto rosso; Colette, fra tanti cuscini, che elenca le sue farfalle preferite; T.S. Eliot sulle rive del lago di Nemi; Maugham che balbetta vicino alla tomba di Cecilia Metella; Dylan Thomas a Ostia; Gertrude Stein che discetta sugli ortaggi; Ezra Pound che si infuria giocando a tennis, perché una certa signorina Piaggio lo batte; Hemingway sottoposto a interrogatorio da Lady Cunard; Marianne Moore che riflette sugli armadilli; Santayana che riceve in convento; Mario Praz che riceve nella sua casa di via Giulia; Norman Douglas che depreca i suoi colleghi più giovani in un caffè di Capri; Karen Blixen che parla degli spiriti dell’Africa; Nabokov che si abbandona ai suoi ricordi di entomologo. -
Due città
Elena Croce ha sviluppato negli anni un singolare talento di memorialista controvoglia – o comunque poco incline alle raffigurazioni frontali e minuziose. Il suo tentativo è piuttosto quello di strappare alla memoria, con sottili tattiche di aggiramento, alcune nitide scene. Erano state, finora, l’infanzia e la figura del padre, Benedetto Croce, a risvegliare questo suo dono. Qui, invece, sono soprattutto alcuni incontri con persone sulle quali troppo o troppo poco è stato detto: fra gli altri Bernard Berenson, Margherita Caetani, la squisita e coraggiosa editrice di «Commerce» e «Botteghe Oscure», Mario Pannunzio, Klaus Mann, Joseph Brodsky. Intorno a loro la Croce sa disegnare, offrendoci pochi ma decisivi particolari, i vari stili di vita di qualcosa che oggi non ha più un significato così immediato: una élite, insieme intellettuale e mondana. Le sue debolezze, ma anche le sue grandi virtù, appaiono oggi remote: e alla Croce è riuscito di farle risaltare, con raro senso di equità, proprio nel confronto con ciò che ci circonda. Spartita fra «due città», Napoli e Roma, come dire fra due civiltà diverse, Elena Croce ha vissuto moltissimi aspetti della vita italiana di questi ultimi decenni che rischiano di andare perduti prima ancora di essere capiti. Per chi vorrà avvicinarsi al timbro di certe persone, alle maniere di certi ambienti, alle tonalità di certi anni, questo libro sarà un discreto e prezioso accompagnatore. -
Iside e Osiride
Per i Greci, l’Egitto fu sempre il luogo del meraviglioso e della sapienza. Inguaribilmente «giovani», guardavano quella terra come l’antichità stessa. Dopo secoli di questa fascinazione, testimoniata in Erodoto come in Platone e Pitagora, un sacerdote di Delfi, Plutarco, dedicò il suo Iside e Osiride a Clea, anch’essa sacerdotessa a Delfi, nel tempio di Iside. È questa senza dubbio la più importante fonte greca sulla religione egizia. La sua intenzione è innanzitutto di mostrare che cosa è e come si interpreta un mito. E a tutt’oggi è difficile pensare un testo che al mito meglio sappia introdurre. Inoltre, Plutarco vuole indicarci la concordanza fra la dottrina sacra che si cela nelle vicende di Iside e Osiride e quella che Platone aveva insegnato, nonché la concordanza di significati fra dèi greci ed egizi. Era appunto questo l’omaggio alla sacerdotessa di Iside: «Il fatto che Osiride si identifichi con Dioniso chi meglio di te lo può sapere, Clea?». Con andamento rapsodico e ampie digressioni, ricche di preziosi dettagli, Plutarco delinea il tortuoso percorso di un mito che continuerà sempre a offrirci i suoi enigmi, come annunciavano le parole incise sulla statua di Iside a Sais: «Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio peplo». -
Lettera a mia madre
Dopo anni di assenza, Georges Simenon torna a Liegi per assistere agli ultimi giorni della madre novantenne. Nella stanza dell’ospedale due occhi di un grigio slavato lo fissano: «Perché sei venuto, Georges?». E qui comincia un ultimo duello, silenzioso e immobile, fra madre e figlio. Per quasi cinquant’anni si sono visti poco. Ma un filo resistentissimo lega quella donna minuta, che ha vissuto sempre dello «stretto necessario» nel suo angolo del Belgio, e quello scrittore celebre in ogni parte del mondo, ricchissimo, il caso più stupefacente di fecondità nell’invenzione romanzesca. I loro rapporti non sono mai stati facili, nessuno dei due è abituato all’espansività dei sentimenti. «Ed ecco che ora, dopo tanti anni, vecchi tutti e due, ci ritroviamo faccia a faccia in quest’ospedale, con questi personaggi di cera intorno a noi». Eppure, solo ora Simenon ha l’impressione di capire sua madre, e insieme di non sapere quasi nulla di lei. C’è un fondo comune in questi due esseri: la madre, testardamente, ha «sempre voluto appartenere al mondo della piccola gente»; il figlio si è nutrito di quel mondo in ogni nervo per evocare, con sonnambolica sicurezza, centinaia di personaggi. E solo ora, nella scansione perfetta di questa Lettera, si avvicina alla verità di un personaggio di tale forza che gli ha resistito sino alla morte. -
Carteggio Cecchi-Praz
Nel marzo 1921 Emilio Cecchi, già autore di alcuni dei suoi saggi più importanti, ricevette da un giovane fiorentino, Mario Praz, alcune prove di traduzione da poeti inglesi. Così cominciava unamicizia letteraria che sarebbe durata più di quarantanni ed è testimoniata in questo Carteggio, prezioso non solo per lidentità degli scriventi, ma per la natura del loro rapporto: unaffinità non disgiunta da una nascosta tensione, una reciproca stima talvolta delusa, un alternarsi di slanci (da parte del «discepolo» Praz) e improvvise unghiate (da parte del recalcitrante «maestro» Cecchi). E, mentre Cecchi è fin dallinizio in posizione di magistrale difesa, Praz ci sorprende per labbandono con cui si effonde, soprattutto nei primi anni, in racconti della propria vita, anche sentimentale, usando tratti vivissimi e toccanti. Sarà difficile dimenticare quellInghilterra malinconica e sonnacchiosa, raccontata da un solitario passeggiatore, che qui ci appare in vari squarci. In queste lettere di Praz, come scrive Giovanni Macchia nellintroduzione, «comincia lentamente a realizzarsi il senso di una vocazione letteraria che per labbondanza dei risultati, per la vastità della ricerca e quasi limmensità dellesplorazione, avrebbe avuto qualcosa di prodigioso». Di fatto, da queste lettere appare con una certa crudezza come Praz sia cresciuto da straniero, per gusto e inclinazione, in una cultura pervicacemente autarchica, che considerava «malsano» tutto ciò in cui oggi riconosciamo lessenza più penetrante della cultura moderna. Così veniva considerato da molti un eccentrico amatore di piatti faisandés, mentre era uno dei pochi che sapevano occuparsi soltanto di temi immensamente ricchi. Cecchi percepiva benissimo tutto questo, e fu per Praz un appoggio, oltre che un alto modello, e un richiamo talvolta alla nettezza del giudizio, là dove il più giovane poteva mostrarsi più incerto (e di fatto Praz, più che dal giudizio critico, fu sempre attirato dalla esplorazione inarrestabile dei richiami fra un libro e laltro, tra una forma e laltra). Ma, di là da un certo punto, le loro strade tornavano a dividersi, pur sapendo ciascuno di avere nellaltro il più acuto e il più temibile degli interlocutori. Dietro lo scambio delle impressioni e delle letture, rimane stretto sino alla fine, fra i due grandi saggisti, un delicato nodo psicologico, e questo rende tanto più singolare questo Carteggio. -
Quaderni. Vol. 2
Questo volume contiene i quaderni quinto, sesto, settimo, scritti a Marsiglia dal novembre 1941 all’inizio del 1942. Periodo dunque brevissimo, dove tanto più prodigiosa appare la concentrazione e l’intensità del pensiero di Simone Weil. Qui si direbbe che venga trasposta in regola di vita metafisica quella abitudine che è tipica degli allievi della École Normale (come Simone stessa era stata): studiare pochi testi, ma tentando di derivarne le conseguenze più ramificate, più vaste e più decisive. E proprio in questi mesi vengono a giustapporsi, per la Weil, a quelli greci antichi alcuni testi della tradizione indù, che prendono posto fra quelli per lei essenziali: innanzitutto la Bhagavad Gīta e le Upaniṣad, che ella cominciava allora a leggere nell’originale, dopo essere stata iniziata allo studio del sanscrito da René Daumal agli inizi del 1941. Tra i Vangeli, la Gitā e i greci antichi si viene così a creare una triangolazione abbagliante. Al di là di essa, percepiamo un azzardo peculiare di Simone Weil: tentare di fissare una fisica del soprannaturale, che trasponga le nozioni di leva, forza, limite, equilibrio, gravità, livello, ecc., in un altro ambito, quello di cui meno sappiamo e da cui dipende ogni attimo della nostra vita. Ed è solo la grazia di un rigoroso pensiero analogico a permetterci di procedere, come in queste pagine, verso quella «linea d’ombra» di ogni pensiero che è la giuntura dello spirito con la materia. -
Ombre sull'erba
Nel 1931 la Blixen abbandonò definitivamente la sua Africa, ma per lei «la Croce del Sud brillò ancora per un poco dopo la sua scomparsa, come una traccia luminosa nel cielo, poi impallidì e si spense». I paesaggi, gli animali, gli esseri umani che avevano colmato quellesistenza di angosce e felicità acquistarono laspetto delle figure che ci appaiono nei sogni. Eppure la Blixen sapeva che «lUnità creativa» della sua stessa persona era costituita dalla tensione fra quellAfrica, immagine di una primigenia, selvatica nobiltà, e il suo Nord, gotico e metafisico. Così per anni la sua memoria continuò a volgersi verso uninvisibile Croce del Sud, e a poco a poco si sarebbero depositate le pagine di questo piccolo libro, ricco di storie e di memorabili ritratti, primo fra tutti quello del servitore Farah, qui presentato come «il gentiluomo più perfetto». Intorno a lui, molti altri profili si disegnano, «ombre misteriose, altere e vigili». E ancora una volta avvertiamo la profonda affinità fra la Blixen e questi esseri, come lei «innamorati del pericolo, della morte, e di Dio». Pubblicato nel 1961, un anno prima della morte della Blixen, Ombre sullerba è un ultimo gesto di omaggio e di feudale fedeltà a una terra molto amata. -
Cervelli
«In pace e in guerra, al fronte o nelle retrovie, da ufficiale come da medico, fra trafficanti ed eccellenze, davanti alle celle dei manicomi e a quelle delle prigioni, accanto ai letti e alle bare, nell’ora del trionfo e in quella della caduta, non mi ha mai abbandonato la trance che questa realtà non esista. Misi in moto una sorta di concentrazione interna, smossi sfere segrete, e sprofondò l’individuale, e salì alla superficie uno strato primigenio, ebbro, ricco di immagini e panico. Periodicamente rafforzato, l’anno 1915-16 a Bruxelles fu inaudito, nacque Rönne, il medico, il flagellante delle cose singole, il nudo vuoto dei contenuti, che non poteva sopportare alcuna realtà, e neppure afferrarla, che conosceva soltanto il ritmico aprirsi e chiudersi dell’io e della personalità, la incessante discontinuità dell’essere interiore, e che, di fronte alla esperienza della profonda illimitata antichissima mitica estraneità tra l’uomo e il mondo, credeva incondizionatamente ai miti e alle loro immagini». Con queste parole brucianti Gottfried Benn raccontò una volta la nascita di Cervelli, il libro che raccoglie le storie del dottor Rönne e apparve nel 1916. A distanza di settant’anni, quell’inaudito che irruppe allora nella prosa non ha perso nulla della sua forza d’urto. -
Vita di poeta
Quando Vita di poeta fu pubblicato, nell’autunno del 1917, Hermann Hesse lo recensì subito. Nel suo articolo si leggevano le seguenti parole: «Questo Robert Walser, a cui già dobbiamo tanta bella musica da camera, suona in questo nuovo libretto in modo ancora più puro, ancora più dolce, ancora più alato che nei precedenti. Se scrittori come Walser appartenessero agli “spiriti guida”, non ci sarebbe più guerra. Se Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore».Appare e scompare in questo libro, sotto sempre nuove spoglie, il personaggio di un giovane vagabondo, che ama le lunghe camminate e guarda il mondo con stupore. Talvolta dorme sulle panchine o in misere locande. Talvolta osa mettere piede, con la sua innocente insolenza, in locali di lusso. Talvolta si rivolge, con devota galanteria, ad affascinanti figure femminili. Gli capita anche che le mutevoli autorità del mondo, quali un capocameriere o un poliziotto, lo sottopongano a severe reprimende. E ogni volta il giovane vagabondo risponderà con amabile eloquenza. Non c’è nulla di più allarmante, in Walser, di queste insistenze sulle maniere soavi, e perfino vezzose: è lì che sentiamo la prossimità della follia. Un immenso disordine è a portata di mano, ma tanto più il giovane vagabondo continuerà ad avanzare con il suo passo elastico, avventato, con l’incoscienza di chi sa troppo e vuole soltanto celare ciò che sa dietro ampi arabeschi di parole. Ogni volta, ciò che Walser ci racconta è come l’avvio di un Bildungsroman, di un «romanzo di formazione»: ma è una formazione che si tronca subito, per ricominciare poi da capo, con una nuova storia. Il modello segreto, per Walser, non è lo svagato perdigiorno di Eichendorff né il Wilhelm Meister di Goethe, avido di assaporare il mondo. È piuttosto il disperato Lenz di Büchner, che vaga abbacinato, fuggendo qualcosa che lo ha già, per sempre, colpito. Ma, sulla via della scomparsa totale, qui ancora Walser vorrebbe fermarsi al penultimo passo, per quell’amore che pure la vita continua a ispirargli. Allora vagheggia un’esistenza minima e nascosta, come può essere quella di un bottone. E appunto a un bottone Walser rivolge in queste pagine un’appassionata esortazione, che è quasi la sua regola di vita: «Che tu non ti dia alcuna importanza, che tu sia, o almeno sembri essere, tutt’uno con la missione della tua vita, e ti senta interamente consacrato a quel tacito adempimento del dovere che si può chiamare una rosa dallo squisito profumo, bella di una bellezza che è quasi a se stessa un enigma, profumata di un profumo del tutto disinteressato perché non è altro che il suo destino». -
Fato antico e fato moderno
Negli anni in cui elaborava la sua opera capitale, Il mulino di Amleto, Giorgio de Santillana pubblicò alcuni saggi che miravano a introdurci a quella nuova visione, così sconcertante, di tutto il mondo arcaico. E innanzitutto si soffermò sull’idea posta all’origine di ogni altra nella imponente concezione del cosmo che ci appare già formata al nascere della scrittura: l’idea di fato. Questa necessità scandita nel tempo, che tocca tutte le figure «sul “teatro del mondo ammascherate”, come direbbe Campanella», ed è segnata dal moto degli astri, si lascia riconoscere nei più svariati documenti: «nel paesaggio coltivato, nelle immagini, nel mito, nella tradizione molte volte dispersa e frammentata ma in cui si ravvisano, come i pezzi di un puzzle, ingegnose costruzioni narrative che si erano venute diffondendo e che, ricomposte almeno in parte, si rivelano essere il primo linguaggio scientifico». Ma la perfetta «incastellatura di corrispondenze», per cui numeri e immagini si dispongono nei punti nodali di un cosmo dove «tutto è come deve essere, se è», lascia intravedere un dramma iniziale, «un grande conflitto dei primi tempi, in cui venne dissestata la fabbrica dell’universo». Capire il mito o la scienza arcaica, avvinti – come Santillana ci ha dimostrato – l’uno all’altra, è un riscoprire le tracce sia di quell’ordine sia di quel dissesto. Dai Caldei a Parmenide, a cui qui è dedicato un celebre saggio, è stato questo il fuoco centrale del pensiero. Nei saggi qui raccolti torniamo a percepirne la luce. -
La fine di Chéri
«Quando una donna matura ha una relazione con un ragazzo giovanissimo lei rischia meno di lui. In tutte le storie che lui avrà in seguito, sarà marchiato da quella esperienza e non riuscirà a cancellare il ricordo di quella sua prima amante» (Colette in un’intervista). La dimostrazione di questo teorema ci è offerta dalla Fine di Chéri (1926), seguito duro e amaro di Chéri. La scena si apre nel momento stesso in cui il primo romanzo si chiudeva: «Chéri si richiuse alle spalle il cancello del piccolo giardino e aspirò l’aria della notte: “Come si sta bene...”. Ma si riprese subito: “No, non si sta bene”. Gli ippocastani accalcati gravavano sulla calura prigioniera». Con sconcerto, e una sottile rabbia, Chéri dovrà riconoscere che anche nella vita lui non sta poi così bene. Giunto all’acme della sua esistenza di ‘bello’ dinanzi a cui le donne, giovani o mature, si inchinano, Chéri percepisce una vaga inquietudine: «Non distingueva i punti precisi in cui il tempo, con tocchi impercettibili, segna su un bel viso l’ora della perfezione e poi quella di una bellezza più evidente, che annuncia già la maestà di un declino». E quel declino maestoso vivremo in questo libro, dove la punta avvelenata della storia di Chéri emerge con fredda chiarezza, come la canna di una pistola, dalla prosa avvolgente, atmosferica, precisa di Colette. -
La mia Europa
L’idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po’ consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Miłosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. «Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini». Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell’altra Europa, dove Miłosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali «la parola non può non essere perdente»? Così Miłosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell’«amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che avevano fatto parte del Granducato di Lituania, quando esso era una potenza ben maggiore di quella russa, avrebbe continuato a mostrarsi attraverso le vicende della sua «vita di poeta», e ogni scena si sarebbe prolungata in un cespuglio di digressioni storiche. Con umiltà, usando i propri sentimenti quasi come pretesto per evocare quel fantasma di popoli, boschi e vicoli, Miłosz ha scritto un libro prezioso, il primo forse che dovrebbe prendere in mano chiunque voglia sapere qualcosa di quella immensa Europa «sequestrata», dove è d’uso ormai cancellare la storia, il tempo, i nomi, ma dove la complessità e gli intrecci delle civiltà erano tali che «pressoché ogni uomo che si incontrava era diverso dall’altro, non per una sua peculiare specificità, bensì quale rappresentante di un gruppo, di una classe o di un popolo». Chi si è trovato a vivere, come Miłosz, in quelle terre durante la prima metà del secolo ha dovuto forzatamente attraversare tutte le trappole e le tensioni dell’epoca, e ogni volta nella loro forma estrema. Un dolente, incompreso sorriso appare in un tale uomo quando l’Occidente vuole sorprenderlo o sconvolgerlo. Perché ogni volta si tratterà, al più, di una ripetizione attenuata di qualcosa che laggiù è già avvenuto. È parte della grandezza di Miłosz aver conservato intatta la forza del ricordare. Guidati da quella forza, siamo qui spinti a immergerci, con stupore, in una selva di dettagli che la storia ha condannato. Così le strade di Parigi come l’intreccio delle generazioni e dei caratteri finiscono per fissarsi in immagine: «re addormentati in un groviglio di gigli di pietra, simili a disseccati insetti invernali». -
Il soffio vivo. I procedimenti del «Nutrire il principio vitale» nella religione taoista antica
Eccentrici anche in questo, i Taoisti della Cina antica non miravano soltanto a una modesta immortalità dell’anima, ma intendevano la salvezza come Vita Eterna, in quanto «immortalità materiale del corpo stesso». Tanti, infatti, erano per loro gli spiriti, le anime e i soffi, che soltanto l’unità del corpo permetteva di farli convivere senza troppa confusione. Ma, per giungere a tale risultato, occorre un lungo lavoro alchemico, durante il quale «il corpo immortale si costruisce misteriosamente all’interno del corpo mortale». Le ossa diventano oro e la carne giada: «tra vita mortale e vita immortale non esiste frattura, ma un impercettibile passaggio dall’una all’altra». Questa fisiologia mistica è una delle parti più affascinanti e segrete del Taoismo – e si può dire che Maspero sia stato il primo studioso occidentale a far breccia, con questo saggio del 1937, negli arcani Campi di Cinabro (come veniva definito, in cifra, il corpo umano). Usando un linguaggio mirabilmente immaginoso, i sapienti taoisti erano arrivati a una conoscenza sottile delle forze vitali che ci lascia sbalorditi. Il reciproco sopraffarsi, paralizzarsi o rinvigorirsi dello yin e dello yang, del principio femminile e di quello maschile, è osservato con acutezza tale da delineare, fra l’altro, una dottrina della vita erotica rispetto alla quale ogni equivalente occidentale appare quanto mai goffo. I Taoisti sapevano con minuziosa precisione perché l’eros può servire sia a esaltare la vita sia a minarla. Come dice, con impassibile ironia, un loro antico testo: «L’Imperatore Giallo giacque con milleduecento donne e diventò Immortale; gli uomini comuni hanno una sola donna e si distruggono la vita». -
Quaderni. Vol. 1: Quaderni-Ego-Ego scriptor-Gladiator
Per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». A tale folgorazione, in sé perfettamente neutra, Valéry tenne fede per tutta la vita, come fosse stata una illuminazione religiosa. Più che di poesia o di filosofia o di scienza, era interessato a fare la sua mente. «Gli altri fanno libri, io faccio la mia mente». Dalla specola dei Quaderni, poesia o filosofia o scienza non sono che punti di applicazione di quella «cultura psichica senza oggetto» dove chi pensa non ha neppure un nome o un’identità, ma è lo spaccato di una serie di eventi della coscienza. E la scrittura li registra, studia, combina, come fossero un’algebra. Opposto per natura all’«intima ridicolaggine» del Sistema, il procedimento di Valéry nei Quaderni è un inarrestabile «lavoro di Penelope..., giacché consiste nell’uscire dal linguaggio ordinario e ricadervi, uscire dal linguaggio – in generale – vale a dire dal – passaggio e ritornarvi». Immense sono le scoperte a cui Valéry è giunto nella sua assidua, silenziosa esplorazione dell’«impero nascosto». Ma la loro prima caratteristica è che non possiamo elencarle come teoremi o concetti. Per capirle, bisogna ripercorrere i passi dell’esploratore, bisogna entrare nella pelle di quel procedimento, di quegli «esercizi». La loro potenza potrà essere constatata da ogni lettore: chiunque sia stato mentalmente contagiato dal procedimento di questi Quaderni non potrà più disfarsene per la vita: diventerà una seconda natura della sua coscienza, una seconda mente, che aspettava di essere svegliata – e viene risvegliata dalle innumerevoli ore di veglia lucida, ignorata da tutti, di quella mente che si chiamò Paul Valéry. -
Schopenhauer come educatore
Questa terza «Considerazione inattuale», scritta e pubblicata nel 1874, è un’altra sfida che il giovane Nietzsche volle lanciare alla cultura moderna. Al centro, questa volta, è Schopenhauer. Ma Nietzsche non vuole qui addentrarsi nel suo pensiero, bensì prendere la sua figura come emblema del «grande uomo», del genio, categoria che l’Ottocento aveva esaltato e ora si apprestava a sgretolare. Di fronte al diffondersi di una certa generale pavidità, di fronte alla incapacità dell’individuo di sostenere se stesso come unicum, di fronte all’appiattirsi della cultura in servile obbedienza allo Stato, Nietzsche ha voluto ricostruire una fisionomia, quella di «Schopenhauer come educatore», incompatibile con quei caratteri che vedeva affermarsi sempre più intorno a lui. La grandezza, per Nietzsche, non può essere disgiunta dalla familiarità con i mostri e con il fondo feroce dell’esistenza. Eppure, solo chi è avvezzo ad attraversare l’oscuro riesce a emanare un senso perdurante di serenità: «Il vero pensatore rasserena e allieta sempre, sia che egli esprima la sua serietà o il suo scherzo, la sua penetrazione umana o la sua indulgenza divina; senza atteggiamenti tetri, mani tremolanti, occhi acquosi, ma sicuramente e semplicemente, con coraggio e vigore, forse con un certo fare cavalleresco e duro, in ogni caso però come vincitore; e proprio ciò rasserena più profondamente e intimamente: vedere il dio vincitore accanto a tutti i mostri che egli ha combattuto». -
Le finestre di fronte
Siamo a Batum, sul Mar Nero, nei primi anni di Stalin. Adil bey è il nuovo console turco. Comincia a guardarsi intorno. Entra nel suo ufficio, «sporco di quella sporcizia lugubre che si ritrova nelle caserme e in certi uffici pubblici». Dà unocchiata fuori e vede due persone affacciate alla finestra di fronte. «Prendevano il fresco, nelloscurità, in silenzio». Più tardi vedrà il punto rosso di una sigaretta nel buio di quella finestra. Adil bey avverte subito un invincibile disagio, in quella città desolante, dove tutto lo respinge, dove ogni significato è dubbio e sfuggente. E si sente preso in una rete: sguardi, mezze parole, contrattempi, scene intraviste. Capisce di essere un insetto condannato a contemplare la ragnatela che lo imprigiona. Continua a guardare le finestre di fronte, con maggiore curiosità di quella che mostrano gli altri a osservare lui. Spia le spie, e intanto anche il suo corpo sembra intaccato, una cupa rabbia si unisce alla paura. E langoscia si espande, nulla può arrestarla. Su questa scena si consuma una storia di amore, inganno e morte. Pubblicato nel 1933, quando la natura della Russia di Stalin era ancora ignota allesterno, e nessuno poteva raccontarla dallinterno, questo romanzo è una prova sconcertante della precisione visionaria di Simenon. Nel ritmo torpido e maligno della vita a Batum troviamo tutti i tratti dellossessione poliziesca che fa da sfondo al nostro tempo. Nulla di essenziale cè da aggiungere a questa immagine, che ha una sonnambolica sicurezza. Non vi è qui alcuna preoccupazione ideologica: sola allopera è la capacità primordiale di cogliere unaria, unaura, unessenza nascosta. Così, forse senza accorgersene, Simenon ha scritto il romanzo russo di quegli anni che altri non hanno potuto scrivere.