Sfoglia il Catalogo feltrinelli013
<<<- Torna al MenuCatalogo
Mostrati 5881-5900 di 10000 Articoli:
-
Il discorso vero
Questo libro è una testimonianza decisiva dello scontro dottrinale fra Pagani e Cristiani. Celso, filosofo medioplatonico del II secolo, sferrò con Il discorso vero un attacco radicale contro lo scandalo della nuova religione che veniva dalla Palestina e pretendeva di sostituirsi a culti immemorabili. Col gesto di un aristocratico cosmopolita, lo osserviamo reagire all’invadenza della pìstis, della fede, là dove dovrebbe regnare soltanto la conoscenza. E insieme rivoltarsi contro la boria antropocentrica dei Cristiani, che gli appaiono simili «a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso che litigano per stabilire chi di loro è più colpevole». Dalla parte cristiana, Celso incontrò, dopo qualche decennio, l’avversario più temibile: Origene. E, per un’ironia della storia, mentre Il discorso vero, nella sua interezza, andò perduto, ciò che sopravvisse furono i frammenti che Origene ne citava nella poderosa opera di confutazione che gli dedicò. In essi, qui presentati per la prima volta in edizione italiana, possiamo riconoscere, in tutto il suo vigore, la voce di una grande civiltà su cui incombe il declino, ma che non vuole rinunciare a se stessa. -
Gli imperdonabili
Nella nota biografica che accompagnava un suo libro, Cristina Campo diceva di se stessa: «Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno». Quel poco è quasi tutto raccolto in questo libro e imporrà una constatazione a ogni lettore percettivo: queste pagine appartengono a quanto di più bello si sia mostrato in prosa italiana negli ultimi cinquant’anni. Cristina Campo era un’imperdonabile, nel senso che la parola ha nel saggio che dà il titolo a questo libro: come Marianne Moore, come Hofmannsthal, come Benn, come la Weil, aveva la «passione della perfezione». Non altrimenti avrebbe potuto scrivere le pagine che qui si leggono su Chopin o sulla fiaba, sulle Mille e una notte o sul linguaggio. «Saluto una sapienza oggi fra le più strane» ha scritto Ceronetti, una volta, della Campo. Forse è venuto il tempo perché i lettori si accorgano che in Italia, in mezzo a tanti promotori delle proprie mediocrità, è vissuta anche questa «trappista della perfezione». -
Mente, linguaggio e realtà
Hilary Putnam è stato per molti anni, ed è tuttora, una sorta di baricentro della filosofia della scienza. Tutti i temi più caldi e delicati dal rapporto mente-macchine a quello ragione-realtà vengono a un certo punto da lui affrontati e fatti passare attraverso un vaglio quanto mai sottile. E si può dire che, una volta passati da quel vaglio, quei problemi non si presentano più come si presentavano prima. Se trasponessimo in termini medioevali la situazione di oggi, Putnam vi occuperebbe un luogo analogo a quello di san Tommaso, ugualmente opposto al nominalismo (che oggi sarebbe rappresentato innanzitutto da Quine, ispiratore-avversario di Putnam) e allidealismo platonizzante. Putnam, di fatto, è un realista. Ma, contrariamente ai realisti letterari, quelli scientifici sono tenuti a mostrare una straordinaria sottigliezza. La loro scommessa di accettare lesistenza di una realtà li obbliga a procedimenti estremamente rigorosi e sofisticati. Maestro fra tutti loro, Putnam è convinto che, se si vuole ancora dare un senso preciso alla parola ragione questa entità dai contorni sempre più fantomatici , occorrerà sottoporla a prove durissime e controllate passo per passo. E in questo senso le analisi di Putnam si sono rivelate preziose anche per i suoi avversari. Mente, linguaggio e realtà è apparso per la prima volta nel 1975. -
Porte aperte
A Palermo, verso la fine degli Anni Trenta, «un crimine atroce e folle, di cui è protagonista un personaggio vinto quanto quelli di Verga e sgradevole quanto quelli di Pirandello». La macchina giudiziaria si muove – e sin dall’inizio aleggia sul processo l’ombra della condanna a morte. In Italia «si dorme con le porte aperte»: era questa una delle più sinistre massime del regime, che molto teneva a sottolineare, in mancanza della libertà, il proprio culto dell’ordine. Ma, trasportata a Palermo, «città irredimibile», quella massima assume subito altri significati. Qui «aperte sicuramente restavano le porte della follia». E, controparte della follia, qui regna una vischiosità di rapporti che inficia ogni gesto, ogni parola. Eppure, proprio qui si profila un personaggio che rappresenta l’opposto: il «piccolo giudice» che, trovatosi fra le mani quel delicato processo dove le autorità tenevano ad applicare la pena di morte, quale prova della loro fermezza morale, testardamente si oppone, soltanto perché ha un’idea netta e precisa della Legge. In queste pagine, che vibrano di un occulto furore, Sciascia ci fa avvicinare ancora una volta, e più che mai, al cuore nero e opulento della Sicilia, scenario e humus di una vicenda che «assurge a significare la pena del vivere, lo squallore e l’indegnità di quegli anni, la negazione della giustizia». -
Segnavia
Wegmarken, che può essere tradotto con «segnavia», sono tracce, segni, indicazioni poste lungo un cammino o un sentiero, che servono, per chi intenda seguirlo, a riconoscerlo. Con questo titolo Heidegger raccolse e pubblicò nel 1967 dodici scritti da lui pensati e stesi lungo il proprio cammino speculativo successivo a Essere e tempo e alla cosiddetta «svolta». Se si osserva la composizione del volume, si constaterà che qui, più che in ogni altra sua raccolta di saggi, Heidegger ha voluto tracciare il suo itinerario nel pensiero. I testi abbracciano quasi quarant’anni di una meditazione che il lettore si troverà a ripercorrere nei suoi passaggi cruciali. Nei testi di Segnavia, infatti, si può dire che il pensiero di Heidegger si dirami in tutte le sue direzioni e, al tempo stesso, che accenni da queste verso il suo centro nascosto. Qui troveremo, per esempio, un testo rivelatore – e annunciatore di un vasto sviluppo – come Che cos’è metafisica?, ma anche i due soli scritti su Platone e Aristotele che Heidegger abbia pubblicato in vita. E se la celebre lettera sull’ «umanismo» o la lettera a Ernst Jünger intitolata La questione dell’essere si aprono su quella comprensione della tecnica e del nichilismo a cui si connette tutta la visione heideggeriana del moderno, sino a oggi la più lungimirante e illuminante, altri testi come i saggi Sull’essenza del fondamento e Sull’essenza della verità ci avvicinano al luogo dove si mostra e si sottrae «ciò che un tempo la parola “essere”, in quanto cosa da pensare, ha svelato, e forse un giorno, in quanto cosa pensata, occulterà». La nostra edizione, a cura di Franco Volpi, si basa su quella apparsa nel 1976 all’interno delle Opere Complete (Gesamtausgabe) di Heidegger, che è arricchita dalle annotazioni marginali manoscritte apposte da Heidegger sulle sue copie dei testi, oltre che da due nuovi scritti. L’ampio Glossario finale rende ragione delle scelte terminologiche operate dalla nostra edizione, riferendosi a tutto lo sviluppo del pensiero di Heidegger e comprendendovi anche numerosi riferimenti agli importanti testi postumi in corso di pubblicazione. -
In sonno e in veglia
Per Anna Maria Ortese, qualsiasi cosa tocchi con la parola, la materia si trasforma in quella «materia indivisibile di cui parla la fisica nei suoi momenti di sogno». Come ogni vero scrittore fantastico la Ortese, probabilmente, non vorrebbe essere tale. Vorrebbe soltanto nominare la realtà che conosce. Ma la sua realtà è subito allagata da una piena di immagini, che la rendono multipla, variegata, senza fondo. «Tutto era infinitamente più grande, più mutevole, più bizzarro di quanto io potessi capire»: questa sembra essere stata, sembra essere ancora, per lei, la sensazione primaria. In questo nuovo libro di racconti, il primo dopo lunghi anni di silenzio, ci troviamo da un capo all’altro immersi in questa realtà seconda, spesso angosciosa, o minacciosa, ma anche talvolta attraversata da un trillo di incantevole comicità o da un’aerea ebbrezza. Oltre a quello narrativo, vi è poi un altro versante nella sua opera, che si mostra nelle ultime due, mirabili prose di questo libro. Come definirle? Meditazioni? Comunque, proprio in questa zona, nella conversazione immaginaria intitolata Piccolo drago, incontriamo una autoconfessione che accende la lingua italiana di un pathos visionario quale raramente ha avuto l’occasione di ospitare. Qui stillano come gocce infuocate le parole di qualcuno che può dire di sé: «l’inferno di questo secolo non mi fu ignoto né estraneo». E qui la voce della Ortese, che altrimenti sussurra «in sonno e in veglia», improvvisamente vibra di offesa eloquenza per difendere l’esistenza animale, che è anche la nostra esistenza animale, di quella parte di noi che appartiene ai «popoli muti di questa terra, i popoli detti Senza Anima – dal Dittatore fornito di anima – e per di più mortale! – che è il loro carnefice da sempre». -
L' imitatore di voci
Rare cose fanno sognare come quelle notizie di cronaca che racchiudono un destino in poche righe dettate in tono di spassionata neutralità. In questo libro Thomas Bernhard ha scelto come forma letteraria appunto la notizia di cronaca. Così troveremo qui più di cento romanzi in altrettante pagine. Prendendo di sorpresa il lettore, e sostituendo una guizzante velocità al martellio ossessivo dei suoi libri più celebri, Bernhard inanella una serie di storie esilaranti e oltraggiose, tutte enunciate da un cronista che si pretende di impeccabile sobrietà e precisione. I fatti innanzitutto – sembra dirci, con celato sarcasmo. E i fatti, nella loro nudità, riescono pur sempre a sbalordirci. Sono multiformi e coatti come il protagonista della storia che dà il titolo al libro: un imitatore di voci che riusciva a imitare ogni voce possibile ma rimaneva interdetto e si dichiarava incapace quando gli chiedevano di imitare la propria. -
Lettere dall'Africa (1914-31)
Nel gennaio 1914 Karen Dinesen sbarcava nel porto di Mombasa, sposandosi il giorno stesso con il barone Bror Blixen. Nel 1931 ripartiva dallAfrica, col cuore spezzato, dopo aver perso ogni speranza di continuare a reggere la sua piantagione nel Kenya. Fra queste due date avviene un lungo dramma, con intermezzi incantati, che ben conoscono tutti i lettori de La mia Africa. Ma solo queste splendide lettere ai familiari permetteranno di ricostruirlo nella realtà di ogni giorno, nelle oscillazioni fra lentusiasmo e lo sconforto. E si può dire che, proprio in queste lettere, la Blixen si sia scoperta e messa alla prova della scrittura. Fin dallinizio, lAfrica fu per lei il luogo dove custodire un «pezzo del cuore, forse il più grande». E insieme era lo scenario dove, come uneroina impeccabilmente spregiudicata, che pretendeva di essere pronta a «iniziare la tratta dei bianchi, se si aprisse uno spiraglio in quel ramo» e definiva se stessa «una snob eletta da Dio», la Blixen volle esporsi alle potenze congiunte della vita. Il risultato fu una bruciante sconfitta. Ma quella sconfitta, a sua volta, velava appena lo sprigionarsi di una nuova magia: la letteratura. Negli anni africani si compì nella Blixen una mirabile metamorfosi, che possiamo seguire passo per passo in queste pagine, dove la forma epistolare diventa spesso un tenue involucro per accogliere lurgenza del racconto e della confessione. Per tutto quel tempo si svolse, nel fondo oscuro dei fatti, una lunga, stregonesca operazione di baratto fra la vita della Blixen e la sua arte. «Nessuno è entrato nella letteratura sanguinando più di me» disse una volta la Blixen. Ma, anche se lesperienza africana fu lancinante di pena, la Blixen continuò a guardarla con gratitudine, assistita dal suo demone: «Di tutti gli idioti che ho incontrato in vita mia e Dio solo sa che non sono pochi credo di essere stata la più grande. Ma mi ha impedito di cadere a pezzi un indomabile amore per la grandezza, che è stato il mio demone. E ho vissuto una quantità infinita di cose meravigliose. Anche se con altri lAfrica è stata più clemente, io credo fermamente di essere uno dei suoi figli prediletti. Un gran mondo di poesia mi si è dischiuso quaggiù, e mi ha fatto entrare, e io lho amato. Ho guardato i leoni negli occhi e ho dormito sotto la Croce del Sud, ho visto le grandi praterie in fiamme, e le ho viste coperte di sottile erba verde dopo la pioggia, sono stata amica di Somali, Kikuyu e Masai, ho volato sopra le Ngong Hills ho colto la più bella rosa della vita, e Freja ne sia ringraziata». -
La marcia di Radetzky
La famiglia Trotta, di stirpe slovena e contadina, acquista lustro nella battaglia di Solferino, quando Joseph Trotta salva la vita dell'imperatore Francesco Giuseppe e ne riceve in cambio il titolo nobiliare. ""L'eroe di Solferino"""" è ricordato in tutti i libri di testo e trasmette agli eredi il compito di salvaguardare tale eroismo. La vita della famiglia scorre parallela a quella del longevo imperatore: Carl Joseph, l'irresoluto e debole nipote muore in uno dei primi scontri della guerra 1915-18; il padre il sottotenente Von Trotta, dopo aver atteso nel parco di Schonbrunn l'annuncio della morte dell'imperatore, si lascia a sua volta morire nell'autunno piovoso che segna anche la fine di un'epoca."" -
Il canto del pendolo
I saggi di Brodskij sono stati definiti «un’autobiografia intellettuale nel senso più ampio»: talmente ampio che qui troveremo, in naturale e illuminante adiacenza, un discorso sul significato del versetto evangelico sul «porgere l’altra guancia» e un’analisi acuminata di due liriche di W.H. Auden e della Cvetaeva, che si azzarda a risalire «la genealogia di una parola, anzi di una consonante», e ci offre una dimostrazione in atto di che cosa potrebbe significare un’estetica «dal punto di vista dell’artista», secondo la formula di Nietzsche. Nell’un caso come nell’altro, giungeremo in fondo sapendo finalmente che cosa vuol dire «citare un versetto» – o commentare un verso. Ma al tempo stesso tutto questo apparirà come parte di un racconto, di una narrazione erratica e puntuale. «Poeta è qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero» scrive qui Brodskij. Così è accaduto che la prosa inglese sia stata proiettata in una rapinosa fuga di pensieri da questo poeta russo. E su temi disparati, ma tra loro congeniali, siano la tirannia o Dostoevskij, la Achmatova o Platonov, Montale o Kavafis. Ogni volta Brodskij ci aiuta a entrare e a uscire dalla letteratura e dal mondo con una mirabile velocità di passo mentale, lasciando dietro di sé le tracce disperse di un involontario autoritratto. -
Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi
«In una letterina in balbettante francese – siamo a Natale del 1811 – Giacomo, scrivendo “De la Maison”, annuncia al Padre quanto egli abbia profittato dell’insegnamento paterno, del suo esempio. A imitazione del padre, Giacomo ha scritto una tragedia che ha per protagonista un Monarca delle Indie: occidentali nel testo paterno, orientali nel testo di Giacomo; nella seconda tragedia del figlio è protagonista un Principe Reale, come accadeva nella corrispondente tragedia del padre; nella terza tragedia il tema sarà, in entrambi i casi, il Tradimento. Questa letterina natalizia, propiziatoria, prospettica, minatoria, così blesa e dolcemente onirica, mi sembra affascinante; ed anzi mi sembra che tutto quel che seguirà, la meticolosa, ardua contesa di una vita, riceva in quella letterina – è importante che si tratti appunto di una letterina – una dichiarazione di retorica, il programma di un evento scenico e cerimoniale: e s’è visto che i contrassegni sono il Monarca, il Principe Reale, il Tradimento: ce n’è per una vita. «Iniziato con quella lettera natalizia, il rapporto Giacomo-Monaldo assume immediatamente la sua qualità costante, qualcosa che lo distinguerà da tutti gli altri rapporti di cui abbiamo documento nell’epistolario leopardiano; la qualità è cerimoniale e teatrale, il linguaggio è eloquente, con toni medi, talora umile, con discrezione; il comico vi si potrà infiltrare per astuzia, per frode, per malizia, ma non vi trova luogo naturale; soprattutto importa notare che tutto ciò che vi si dice, dall’una e dall’altra parte, fa riferimento alle leggi di un copione, obbedisce ai cenni di un invisibile regista al quale entrambi hanno convenuto di far riferimento. Dunque, non si dica che mentono, che equivocano, che frodano; vorrei vedere che non mentissero: le battute sono nel copione, il regista è intollerante, la loro menzogna è la loro specifica veracità teatrale. Non era forse il Tradimento il gran tema di una Tragedia che includeva un Monarca e un Principe Reale? - Giorgio Manganelli -
La signorina Else
Nell’opera di Schnitzler, La signorina Else è un’aria mirabile, che continua a suonare nell’orecchio di chi l’ha sentita anche una sola volta. Fin dalle prime battute, e poi sempre più trascinati sino alla fine, avvertiamo il battito tumultuante del sangue e delle parole che circolano nella testa di Else, l’adolescente «altera», vivida e appassionata. Incombe su di lei, sulle sue nervose vacanze alpine, una catastrofe familiare. E la madre stessa, con il tono mellifluo e patetico che si conviene alla stregoneria familiare, la invita a vendersi per salvare la famiglia. Tutto il testo di Schnitzler è nella reazione di Else a questa richiesta, vissuta prima come premonizione, quando la lettera della madre non è ancora aperta, e poi come sfida, una sfida mortale. Mai forse un altro narratore moderno era riuscito a fondere il monologo interiore, la fantasticheria, l’azione e il dialogo (e perfino la musica, nella scena culminante) in una simile intimità, dove ogni elemento è il fremente rovescio dell’altro. Non meno di Molly Bloom, Else si offre a noi dall’interno nelle sue minime oscillazioni psichiche, che qui affiorano con quella velocità mentale che la prosa quasi mai riesce a catturare. Ma – e questo è il più azzardato, il più felice artificio di Schnitzler – al tempo stesso la contempliamo dall’esterno e la sua presenza si impone a noi come quella di un’antica eroina. -
Capri
Capri visitata e raccontata da Savinio? Sembrerebbe un desideratum, uno fra i tanti irrealizzabili. E invece ecco emergere dalle carte dello scrittore questo testo, che risale al 1926 e finora è rimasto inedito. Nella sua nuova funzione di guida turistica, Savinio ci infonde subito una irrefrenabile allegria e curiosità, appena puntiamo «occhi avidi sul fantasma di quell’isola che sorge, fumoso e lontano, dal cuore dell’infecondo mare». Seguiamolo – e senza quasi accorgercene ci troveremo a «penetrare di colpo nel carattere più folto, più misterioso, più leggendario» del luogo. Nonché nella commedia «truculenta, tra frivola ed estetizzante, di tutti gli ulissidi che, attratti dal non mai spento canto delle Sirene, convergono qui dai punti più remoti del globo». Questo è Capri: un luogo mitico, e insieme la scena di una «vita oziosa, flirtesca». Nessuno meglio di Savinio poteva disporre della giusta attrezzatura fantastica per illustrarcelo. -
L' arte del romanzo
In sette testi relativamente indipendenti ma collegati come altrettante tappe di un singolo saggio, Kundera ci parla di quella creatura singolare, imprevedibile, grandiosa e delicata che è il romanzo europeo («arte nata come eco della risata di Dio»). Il suo discorso scavalca con sicurezza ogni pretesa di rigido inquadramento teorico e si dedica invece a un'analisi amorosa di ciò che il romanzo, creatura polimorfa, diventa nelle mani di scrittori così diversi come Kafka e Cervantes, Broch e Tolstoj, Gombrowicz e Flaubert, Diderot e Musil, Rabelais e Sterne – e infine Kundera: perché qui si troveranno i due testi dove Kundera ha detto l'essenziale per chi vuole accedere al segreto dei suoi romanzi. Anche come saggista, Kundera ha il dono stupefacente della trasparenza: le questioni più intricate appaiono nelle sue parole con una nettezza e un'evidenza tali da farci pensare che le stiamo vedendo per la prima volta. E l'aspetto di confessione, da parte di Kundera, sull'arte che oggi egli conosce più di ogni altro, dà a questo libro una pulsazione ulteriore, per noi preziosa: «Devo sottolineare che non ho la minima ambizione di fare della teoria e che tutto il libro non è altro che la ""confessione di uno che fa della pratica""""? L'opera di ogni romanziere contiene implicitamente una visione della storia del romanzo, un'idea di cos'è il romanzo; ed è proprio quest'idea, insita nei miei romanzi, che ho cercato di far parlare»."" -
Dall'esilio
La sorte ha voluto che Iosif Brodskij si sia trovato, a distanza di pochi giorni, nell’autunno del 1987, a scrivere i due discorsi qui raccolti, che vengono ad assumere nella sua opera un significato simbolico: il discorso su La condizione che chiamiamo esilio e quello per il Premio Nobel di letteratura. Entrambi discorsi dall’esilio, un odierno Ex Ponto. E qui l’esilio è una categoria metafisica, prima che politica. Ciò permette a Brodskij di schivare, sin dal primo passo, il più allettante rischio dell’esiliato, quello di porsi «sul lato banale della virtù». E al tempo stesso dona un’autorità ulteriore alla sua parola. Quando, dal podio di Stoccolma, si è udito che «l’estetica è la madre dell’etica» – e proprio da uno scrittore di impavida fermezza etica –, tutti hanno avvertito una scossa salutare. La letteratura non serve a salvare il mondo. Ma è il più formidabile «acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo». Da qui la sua capacità di guidarci, con mano invisibile, fra tutti i dilemmi più subdoli. «Il punto non è tanto che la virtù non costituisce una garanzia per la creazione di un capolavoro: è che il male, e specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista». -
Enciclopedia dei morti
L’Enciclopedia dei morti di cui si parla nel racconto che dà il titolo a questo libro è un’opera in migliaia di volumi dove sono ammesse soltanto le voci riguardanti persone che non compaiono in alcun’altra enciclopedia. Vale a dire la massa sterminata degli ignoti, che qui si ritrovano raccontati in un «incredibile amalgama di concisione enciclopedica e di eloquenza biblica». rnrnrn«Un libro entusiasmante che mostra la grandezza tragica e fertile di cosa può fare, alla vita, l'invenzione della letteratura» - Orazio Labbate, la LetturarnOpera fantastica, ma che ha un sinistro corrispettivo nella realtà: vicino a Salt Lake City, in gallerie scavate dentro la roccia, sono conservate dai mormoni le schede di più di diciotto miliardi di persone. Questo rapporto trasversale, e quasi di esaltazione reciproca, tra il fantastico e la cronaca si ritrova anche in altri racconti di questo libro – e può riguardare, all’occasione, la storia dei funerali di una prostituta o quella dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende dello gnostico Simone o quella dei Sette Dormienti di Efeso, o le vicissitudini dell’infelice Kurt Gerstein, infiltrato fra gli sterminatori nazisti, come se Kiš fosse perennemente ispirato da «quel bisogno barocco dell’intelligenza che la spinge a colmare i vuoti» (Cortazar). Secondo le parole dell’autore, «tutti i racconti di questo libro nascono, in misura maggiore o minore, sotto il segno di un tema che chiamerei metafisico; a partire dall’epoca di Gilgamesh, la questione della morte è uno dei temi ossessivi della letteratura. Se la parola divano non richiedesse colori più luminosi e toni più sereni, questa raccolta potrebbe avere il sottotitolo di Divano occidentale-orientale, con un chiaro riferimento ironico e parodistico». -
La terra che sussurra
La vita di Gerald Durrell, come ben sanno i suoi numerosi e affezionati lettori, è un continuo alternarsi di viaggi alla ricerca di animali da catturare e di soggiorni nell’Isola di Jersey, dove con gli anni è riuscito a creare un celebre parco zoologico. In questo libro, apparso per la prima volta nel 1969 e diventato nel frattempo uno dei suoi più popolari, Durrell si trova alle prese con nuove e spesso comiche avventure, fra lui e gli animali, in luoghi remoti dell’America del Sud. Pipistrelli e pinguini, elefanti marini e armadilli, oltre a una notevole fauna umana, osservata con l’occhio ironico del viaggiatore, saranno qui i protagonisti. E fra questi non bisognerà dimenticare una famiglia di volpi che danza graziosamente con un rotolo di carta igienica, nonché il tapiro Claudius che succhia rumorosamente una possente catena e poi, trascinandosela dietro come fosse un fantasma, irrompe fra gli invitati a una cena della buona società di Buenos Aires, come un sereno devastatore. -
A ciascuno il suo
Pubblicato nel 1966, e oggi tradotto in tutto il mondo, questo romanzo delloscura, crudele Sicilia è universalmente considerato una delle maggiori imprese narrative di Sciascia. Sobrio, amaro, sottilmente sarcastico, e insieme netto e preciso nei contorni, racconta la storia di un farmacista che «viveva tranquillo, non aveva mai avuto questioni, non faceva politica», e un giorno riceve una lettera anonima che lo minaccia di morte. Da questo punto in avanti tutta la realtà comincia a traballare, e il sospetto, linsinuazione e il sangue dominano la realtà del paese, nellentroterra siciliano. Tutta larte di Sciascia sta nellaggrovigliare e dipanare, volta a volta, questa matassa. Nulla sfugge al groviglio, e alla fine vi rimarrà soffocata proprio la figura dellinvestigatore disinteressato, dellosservatore lucido, il quale, quanto più indagava, tanto più «nellequivoco, nellambiguità, moralmente e sensualmente si sentiva coinvolto». -
La natura ama nascondersi
Vi è un’impressionante costanza, dal primo all’ultimo passo, nel pensiero di Colli. In La natura ama nascondersi, che è del 1948, vediamo tracciarsi con precisione i confini del terreno, filosofico e filologico, che Colli solcherà poi sino a La sapienza greca. Il presupposto si manifesta subito, con bruschezza: «ben poco di vitale è stato compreso sinora della Grecia, all’infuori di quanto hanno detto Nietzsche e Burckhardt». E, in particolare, per quanto riguarda la forma suprema della grecità, che è il pensiero, occorre innanzitutto sbarazzarsi «di quasi tutta la critica moderna, che interpreta i Presocratici secondo quanto crede di capire da Aristotele». Così la prima parte di questo libro è dedicata a una minuziosa disamina di quanto ci è giunto, attraverso Aristotele e Teofrasto, sui primi sapienti della Grecia. Nella visione di Colli, la filologia e la storia hanno un fine unico e comune: «la riduzione dei dati storici in espressioni dove l’interiorità primitiva traspare evidente». Attraverso un’indagine armata di tutte le sottigliezze analitiche si deve giungere a far risuonare «l’affinità interiore suscitata da un’espressione lontana». Il fine rimane quello «di cogliere i Presocratici attraverso le loro stesse parole». Nella parte centrale di questo libro, dedicata a Parmenide, Eraclito ed Empedocle, come nella parte centrale di tutta l’opera di Colli, questo tentativo si è manifestato in forma memorabile, sostenuto da una forza illuminante e tenace. -
Viaggio in Armenia
Per Mandel’štam, il viaggio in Armenia, che durò per qualche mese del 1930, fu una discesa «negli stadi abissali del linguaggio»; là dove «vedere, udire, capire – tutti questi significati, un tempo, confluivano in un unico fascio semantico». Così, in queste pagine, che si presentano con la sprezzatura di una stenografia diaristica, assistiamo al prodigio della continua geminazione delle immagini, a un ultimo convito dell’analogia, prima che il «nero velluto della notte sovietica» inghiotta il poeta. L’Armenia, «regno di pietre urlanti», divenne per lui il luogo di una primordiale fusione geologica fra il mondo cristiano-giudaico e quello ellenico, come dire fra le due lingue della sua poesia.