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La civiltà indiana e noi
Più ostica ancora della sua letteratura folta di dèi è sempre apparsa all’Occidente la concezione indiana della società. Così il sistema delle caste si è attirato numerose condanne, fondate su conoscenze assai vaghe. Poco prima di pubblicare il suo fondamentale Homo hierarchicus, che ha al suo centro un’interpretazione della società delle caste, Louis Dumont ha voluto con questo breve saggio sgombrare il cammino dagli equivoci più tenaci che lo ostruiscono. Fedele all’insegnamento di Mauss, si è preoccupato innanzi tutto di ciò che risultava dall’«inventario delle categorie» indiane e occidentali. E subito ha rilevato discordanze tali da giustificare molti malintesi. A differenza dell’Occidente, per esempio, l’India scinde gerarchia e potere. Il sacerdote è il primo fra gli uomini, ma non rivendica il potere. Il re regna, ma è sottomesso spiritualmente al sacerdote. Più in generale, quella interdipendenza che in Occidente è data dall’intreccio delle attività economiche, per l’India è una categoria religiosa: anzi, si potrebbe dire, la categoria, su cui tutto si costruisce. Nulla, nella visione indiana, esiste in quanto isolato. Tutte le volte in cui noi vediamo l’individuo indivisibile che opera, l’India percepisce la totalità. Per essa, in accordo con una concezione antichissima, l’individuo è il rinunziante, colui che opera fuori dal mondo, non all’interno di esso. Una tale struttura mentale, del tutto opposta a quella occidentale, è però capace di sostenere un edificio quanto mai complesso e articolato. Dumont ci aiuta a riconoscerne le nervature e insieme ci costringe a riconoscere la singolarità e improbabilità delle nostre categorie: primo passo per capire l’India e noi stessi. La civilta indiana e noi fu pubblicato per la prima volta nel 1964 nei «Cahiers des Annales». -
Il mito psicologico nell'India antica
Questopera è una delle più importanti che si possano leggere per avvicinarsi al segreto dellIndia arcaica, lIndia del Rgveda, dei Brahmana, delle Upanisad. In questi testi per la prima volta sentiamo la voce di un pensiero metafisico, cifrata in simboli, allusioni, prescrizioni rituali. Ma qual è la differenza fra questa voce e, per esempio, quella dei primi pensatori greci? È una differenza sottile ed essenziale, fondamento di ogni ulteriore divaricarsi fra Oriente e Occidente. Forse nessun libro come questo di Maryla Falk individua e descrive quella differenza con tanta limpidezza e precisione. In una trattazione ricca di dottrina e intessuta alle fonti, la Falk ci fa entrare nelle vene di questo pensiero non rappresentante (come tutto il pensiero occidentale), ma identificante, teso a «diventare il Tutto, intuendo il Tutto». Ma come si può percorrere questa via azzardata ed esaltante dellidentificazione? Per i veggenti vedici, innanzitutto, latto del conoscere aveva una stupefacente concretezza. Il loro pensiero, prima ancora di parlare del mondo, parla del pensiero stesso, che è più vasto del mondo e lo ingloba. È la mente che qui comincia a parlare della mente, ma «opera con entità mitiche in luogo di concetti»: da qui limmane profusione di immagini, che rimangono impenetrabili a chi non ne conosca la cifra: a chi, per esempio, non sappia che le «acque» delloceano luminoso, fluenti al di sopra della volta celeste, sono le stesse che ondeggiano nell«oceano del cuore», le acque del kama, del «desiderio», le acque ardenti della psiche. Così sorge il «mito psicologico» nellIndia antica: «mentre le forme antiche del mito naturistico attribuivano valore umano, psichico, ai processi cosmici, il nuovo mito psicologico viene a attribuire valore cosmico, universale, ai fatti psichici: mercé ununica esperienza che fa coincidere interamente le due sfere». Che cosa fosse questa «unica esperienza» è raccontato, con esoterica discrezione, nei testi: la scoperta dellatman, scoperta che, da sola, basta a definire lIndia. Chiuso in quel «luogo celato» che è la «cavità del cuore», cè un granello, «più piccolo di un grano dorzo», quasi impercettibile nella sua piccolezza, che improvvisamente può espandersi in una vastità smisurata, può invadere lo spazio, coprirlo, avvolgerlo: quello è latman, la beata vastità di cui luniverso è solo una parte, la zampa del cigno immersa nellacqua. Poggiando sullesperienza dellatman, il pensiero indiano si è spinto successivamente verso due conclusioni opposte: da una parte la più radicale affermazione della vita, quale traspare da tanti inni vedici; dallaltra la più radicale negazione della stessa, implicita in certe Upanisad che già presentano lo stampo dove si calerà il buddhismo. Da una parte intravediamo gli ardenti sacrificatori delle origini: «avidi di beni, mai appagati di potere, dagli odi violenti e dai desideri insaziabili: così ci compaiono dinanzi gli uomini vedici nei loro inni». Ma dallaltra parte, fra le righe delle Upanisad, riconosciamo anche una tuttaltra figura: il rinunciante, colui che ha abbattuto lascia sul tronco del desiderio e dal mondo si distacca con gesto drastico. Questi sono i due estremi fra cui si muove il pensiero indiano. Per... -
Zipper e suo padre
Il narratore di questo romanzo, che Roth presenta come una «cronaca», conosceva bene il vecchio Zipper e suo figlio: aveva condiviso la loro vita in tempo di pace, in tempo di guerra (la prima guerra mondiale), e negli anni dopo la guerra. Allinizio, il giovane Zipper è solo un compagno di classe lentigginoso, che nomina sempre suo padre, come fonte di ogni autorità; e il vecchio Zipper è un uomo piegato dalla fatica dellenorme passo che ha compiuto: nato proletario, è diventato piccolo-borghese, e ora difende con le unghie la sua conquista, aggirandosi nella sua vita come fra i sedicesimi scompagnati di una enciclopedia popolare. Il vecchio Zipper voleva disperatamente sapere, perché pensava che il sapere portasse al successo nella vita: ma la sua vita è rimasta misera, e allora tutti i suoi sogni si depositano sul figlio Arnold. E, come sempre, il figlio non corrisponde ai sogni paterni: rispetto al vecchio, ha «un temperamento più malinconico, un cervello più fino e una pelle meno dura». La somiglianza fra padre e figlio è molto più profonda e misteriosa e a scandagliarla è dedicato questo amaro romanzo. È una somiglianza in qualcosa che li sovrasta, e che si può chiamare destino, ricordando che «nella vita degli Zipper il destino non aveva mai una forza primordiale e prorompente. Aveva il lento, tedioso modo di operare del tarlo». Joseph Roth, che tante volte avrebbe narrato storie dove il destino e la favola si sovrappongono, per una volta ha voluto illuminare laltra faccia del destino, quella in cui si mostra un ingranaggio oscuro, impersonale, freddo. E lo ha fatto isolando una storia esemplare degli anni di Weimar, gli anni del cinema proliferante, degli sradicati, degli arraffatori, anni dove due generazioni in apparenza lontanissime vennero a confluire nella disperazione e nel fallimento, sulla base della comune esperienza della guerra: «Tutti i vecchi Zipper erano sotto le armi, e i giovani pure. Milioni di Zipper sparavano e morivano, e centinaia di migliaia impazzivano». Questa è una storia di illusioni: quella del vecchio Zipper, che suonando il violino pensa di essere un musicista e approfitta delle pause per «lanciare attorno uno sguardo compiaciuto, come un artista che colga un lontano applauso percepibile a lui solo»; quella del giovane Zipper, che vagheggia lAmerica, si innamora di una giovane attrice tipica creatura dei tempi nuovi e si lascia beffare da lei. Senza saperlo, padre e figlio sono colpiti dalla stessa condanna. E a condannarli è semplicemente il tempo che passa, lirrompere di unepoca che li schiaccia. Così il violino amato da Zipper padre torna nelle mani di Zipper figlio: ma ora dovrà suonarlo per fare da spalla a un celebre clown. Alla fine, seduti a un tavolo nella penombra, Zipper e suo figlio sembrano due fratelli: «Entrambi stavano seduti nella sera come in una barca, e veleggiavano lentamente, folli e beati, incontro al medesimo destino». Pubblicato nel 1928, Zipper e suo padre viene qui proposto per la prima volta in traduzione italiana. -
Le origini della Francia contemporanea. L'antico regime
Le origini della Francia contemporanea di Taine è una delle opere più importanti e – osiamo dirlo – più belle della storiografia contemporanea, ma anche una delle meno frequentate; tant’è che per decenni è stata irreperibile nel paese di cui qui si parla. Taine concepì le Origini, a cui dedicò gli ultimi ventidue anni della sua vita (quando morì doveva ancora scrivere gli ultimi tre capitoli), dopo aver patito i disastri della guerra franco-tedesca del 1870. Allora riaffiorò in lui una sensazione che aveva avuto nel 1849, ai tempi in cui era sottoposto alla crudele ascesi dell’École Normale. Davanti alle prime elezioni in cui avrebbe potuto votare decise di astenersi, così ragionando: «Sì, per votare dovrei conoscere lo stato della Francia, le sue idee, i suoi costumi, le sue opinioni, il suo avvenire. Perché il vero governo è quello che conosce la civiltà di un popolo». Nella Prefazione alle Origini, Taine si ricordò di quel momento: ma ora, dopo tanti anni, era in grado di darsi una risposta: «Bisogna sapere come questa Francia si è fatta o, meglio ancora, assistere da spettatori alla sua formazione». Questa formula è l’accenno più esplicito a quel progetto di storia totale a cui Taine si dedicò. Rispetto allo sguardo di Michelet, per il quale la storia era innanzitutto una «resurrezione», una smisurata evocazione allucinatoria, quello di Taine pretende di essere più freddo, affine a quello di un entomologo che osserva le metamorfosi di un insetto. Così almeno dichiara Taine stesso. Ma le dichiarazioni di intenti che costellano le sue celebri prefazioni sono state per lui quanto mai pericolose e svianti. Alcune di quelle formule («la razza, l’ambiente, il momento» o «il vizio e la virtù sono dei prodotti come il vetriolo o lo zucchero») si sono fissate nella mente dei lettori e hanno finito per sostituirsi alle sue opere, finché le opere caddero in disaffezione e rimase soltanto memoria delle formule. Lo sguardo dell’entomologo non segnala in Taine una supposta freddezza scientifica, ma quello scarto rispetto al reale che è proprio di tutti i grandi della décadence. Questo infatti fu Taine innanzitutto, come riconoscevano i suoi commensali ai dîners chez Magny, o certi suoi ammirati lettori della generazione successiva, come Nietzsche o Bourget. Rispetto a Michelet, Taine dunque non si oppone come l’osservazione sobria all’allucinazione, ma come l’allucinazione della décadence alla allucinazione romantica. Per un verso la mente di Taine è sistematica, inquisitiva, vuole scoprire le cause, ricostruire punto per punto come mai l’antico regime dette luogo alla mutazione rivoluzionaria, e poi al regime borghese. Ma per un altro verso Taine è un grande scrittore, incognito persino per se stesso: vuole dare forma, rappresentare, per il puro piacere della forma, come Flaubert. Questa tensione attraversa tutta l’opera di Taine, e talvolta l’ha tarpata. Ma nelle Origini avviene il contrario: i due poli si potenziano a vicenda, la tensione si esalta, in evidenza spiccano sia la nervatura intellettuale sia lo splendore della rappresentazione. Dall’Antico regime ci viene incontro, con imponente nettezza, la sensazione di un... -
Quaderni. Linguaggio, filosofia. Vol. 2
Linguaggio e Filosofia sono le due rubriche a cui appartengono i testi qui pubblicati: come dire il centro, il cuore della ricerca di Valéry. Ma occorre subito precisare un punto: l’originalità e la potenza del pensiero di Valéry in rapporto a queste due parole sono così grandi proprio perché mai, in nessun momento, Valéry parlò in termini da linguista o da filosofo. Linguaggio fu per Valéry la via d’accesso privilegiata alla totalità della mente, al funzionamento cerebrale, all’imponente àmbito di ciò che sta al di fuori della parola. Questo diventava possibile in quanto, per Valéry, «le parole fanno parte di noi più dei nervi». Quanto alla Filosofia, si può dire che Valéry non abbia mai rinunciato a un qualche sarcasmo verso questa disciplina, per lui troppo pomposa e paga di verbalismi. Già nei suoi primi anni osservava: «La metafisica ovvero astrologia delle parole». E dello stesso periodo è un’annotazione che ci permette di capire, una volta per sempre, a quale remota distanza si ponga la «filosofia» di Valéry dalla «filosofia delle università»: «La filosofia è impercettibile. Essa non è mai negli scritti dei filosofi – la si sente in tutte le opere umane che non concernono la filosofia ed evapora non appena l’autore vuole filosofare».Per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». Immense sono le scoperte a cui Valéry è giunto nella sua assidua, silenziosa esplorazione dell’«impero nascosto». Ma la loro prima caratteristica è che non possiamo elencarle come teoremi o concetti. Per capirle, bisogna ripercorrere i passi dell’esploratore, bisogna entrare nella pelle di quel procedimento, di quegli «esercizi». La loro potenza potrà essere constatata da ogni lettore: chiunque sia stato mentalmente contagiato dal procedimento di questi Quaderni non potrà più disfarsene per la vita: diventerà una seconda natura della sua coscienza, una seconda mente, che aspettava di essere svegliata – e viene risvegliata dalle innumerevoli ore di veglia lucida, ignorata da tutti, di quella mente che si chiamò Paul Valéry. -
Tutte le lettere
Dellesperienza esemplare del Manzoni, come intellettuale tra i maggiori del Romanticismo europeo e coscienza tra le più modernamente ansiose di difficili certezze, la raccolta di tutte le sue Lettere è documento fondamentale: unica per la ricchezza delle idee dibattute, per la varietà dei toni, e perché consente di seguire quasi giorno per giorno, dallinquieta giovinezza parigina allangustiata, lucida vecchiaia, i percorsi di unintelligenza altissima e di uninteriorità labirintica, piena di zone oscure. Ne risulta un libro che ogni italiano colto dovrebbe conoscere, a correttivo di unimmagine distorta per lo più dalla scuola o dalle falsificazioni oleografiche. Pubblicate con lungo lavoro da Cesare Arieti, a felice conclusione di tante iniziative precedenti rimaste incompiute, queste Lettere, servite da un sostanzioso apparato di note e di indici, apparvero nel 1970 nei Classici Mondadori. Ledizione Adelphi le ripropone ora, quale strumento essenziale, e ormai introvabile; ma ne fornisce, insieme, gli aggiornamenti indispensabili, con laggiunta, a cura di Dante Isella, di tutte le lettere (una cinquantina e più) venute alla luce dopo quella data, e con la riproposta per altre già note di un testo ricollazionato sugli autografi reperiti. «Niente è privo di interesse, di grandezza o di passione umana, di quel che è passato attraverso questanima. Lo stile epistolare, della medesima cordialità aristocratica, nella varietà dei toni assunti, che colpisce e rapisce in ogni testo manzoniano, è una musica di clavicembalo, che in una casa svuotata da un incendio, ha il potere di rianimare tra le lacrime tutte le cose vissute. E questa edizione è di unabbagliante perfezione: il lavoro di Cesare Arieti, che ha curato i testi e le note con la collaborazione di Fausto Ghisalberti e di Dante Isella, merita unentusiastica gratitudine. A ogni nome, oscuro o celebre, a ogni avvenimento ricordato nelle lettere, la nota avvicina la sua luce discreta, trasformando la traccia e il segno in racconto, lallusione in scoperta, la fuga delle ombre in un album fotografico prezioso. Così il ritrovamento di vita spenta, sotto la mano che cerca, nelle camere in penombra della scrittura manzoniana e nel bagno di sviluppo delle note in fondo al volume, procede come un chiarore, e sulle contrazioni leggere degli oggetti e delle figure che si rianimano, il tempo risalito dai pozzi della sua quiete è come i sali da fiuto sulla vertigine» (Guido Ceronetti). -
Malina
"Malina"""" è la storia di un abnorme triangolo amoroso e di un abnorme assassinio. Leggibile sui più diversi piani, immediato e insieme carico di riferimenti nascosti, quasi temerario nel toccare anche l'attualità più intrattabile o la più proibita realtà dei sentimenti, questo romanzo narra una storia che ha la massima concretezza, facendola però coincidere con un delirio segreto che appartiene a un'altra realtà, con una favola nera che un mondo visibile potrebbe difficilmente ospitare." -
Hilarotragoedia
«Il libretto che qui si presenta è, propriamente, un trattatello, un manualetto teorico-pratico; e, come tale, ben si sarebbe schierato a fianco di un Dizionarietto del vinattiere di Borgogna, e di un Manuale del floricultore: testi, insomma, nati da lunga e affettuosa frequentazione della materia, compilati con diligente pietas da studiosi di provincia, socievoli misantropi, mitemente fanatici ed astratti; e segretamente dedicati alle anime fraterne, appunto ai capziosi delibatori, ai visionari botanici o, come in questo caso, ai rari ma costanti cultori della levitazione discenditiva. L’autore, umile pedagogo, ambisce alla didattica gloria di aver, se non colmato, almeno indicato una lacuna della recente manualistica pratica; parendogli cosa stravagante, che, tra tanti completi e dilettosi do it yourself, quello appunto si sia trascurato, che ha attinenza con la propria morte, variamente intesa. Come usa, e non senza peritosa compunzione, si additano qui taluni modesti pregi del volumetto, che forse lo differenziano da altri consimili trattati, anche più solenni: la definizione di concetti dati troppo spesso per noti, come balistica interna ed esterna, angosciastico, adediretto; l’aver proposto una nuova, e a nostro avviso, pratica e maneggevole classificazione delle angosce; arricchita, inoltre, di un Inserto sugli addii, che a noi pare non infima novità della opericciuola; l’inclusione nel discorso di cervi e amebe, a sottolineare il carattere più che semplicemente umanistico dell’impostazione; e, soprattutto, aver raccolto e presentato alcune diligenti e non esigue documentazioni, non senza abbozzo di commento, che consentiranno di verificare le enunciazioni della parte teoretica; giacché il libro si divide appunto in due parti, che potremmo denominare Morfologia ed Esercizi. E se taluno troverà codesti documenti inconditi e affatto notarili, non dimentichi che il loro pregio è da ricercare nella minuziosa, accanita fedeltà al vero; e pertanto, essi vengono qui proposti come esempi di quel realismo, moralmente e socialmente significativo, di cui il raccoglitore vuol essere ossequioso seguace». - GIORGIO MANGANELLI -
Ritorno in Erewhon
In Ritorno in Erewhon, pubblicato da Samuel Butler nel 1901, a trentanni di distanza dal fortunatissimo Erewhon, la satira alle idee e alle istituzioni occidentali si concentra sul cristianesimo, nella sua versione vittoriana, perbenistica e ipocrita, che Butler descrive con ineguagliata causticità e irriverenza. È laltra faccia dellutopia negativa di un grande misantropo, che dà libero corso alla sua capziosa inventiva teologica e morale, al suo incontenibile impulso a combinare, ibridare le idee, a deformare i paradigmi della vita sociale. Attraverso una successione di scene, intrighi e divagazioni di irresistibile comicità, Butler ci sottopone sottilmente a una salutare diseducazione: il nostro mondo, visto con occhio estraniato grazie allartificio del viaggio immaginario, rivela i suoi aspetti più assurdi e maligni. -
Lettere spirituali
Perseguitato dal fascismo durante la vita, dimenticato per anni dopo la morte, Giuseppe Rensi fu una di quelle figure solitarie e testarde che talvolta attraversano la cultura italiana come corpi estranei. Ma, alla fine, sono piuttosto loro a resistere al tempo. Rensi fu sin dall’inizio un filosofo che non si adattava al suo contesto: scettico radicale, inscalfito dalla fede nella razionalità del reale, riusciva già per questo ugualmente irritante per idealisti e scientisti. Ma anche il suo scetticismo era di una specie inquieta e mobile: sempre più, con gli anni, i suoi testi si potevano leggere come pagine di un mistico senza confessione e pretese di salvezza, che rifugge dall’appellarsi alla divinità ma parla di un’esperienza più affine a quella di Meister Eckhart o dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita che non a quella dei filosofi che occupavano le cattedre da cui era stato scacciato. Grande lettore e commentatore dei classici del pensiero, prosatore terso ed efficace, Rensi ha predisposto in queste Lettere spirituali, apparse postume nel 1943, il tracciato perfetto che ci permette di ripercorrere, partendo da un punto vicino alla fine, tutto il suo cammino filosofico. -
Il monaco nero in grigio dentro Varennes. Sotie nostradamica-Divertimento sulle ultime parole di Socrate
Luigi XVI e Maria Antonietta vennero arrestati a Varennes nel 1791, mentre fuggivano. Più di due secoli prima, il medico-mago Nostradamus aveva scritto, nelle sue Centurie profetiche, una quartina che corrisponde in maniera impressionante, e sino al minimo dettaglio, a ciò che avvenne alla coppia regale. Molti hanno notato, a partire dallinizio dellOttocento, questa concordanza inspiegata. Ma solo un grande studioso come Georges Dumézil, che ha passato la sua vita in mezzo alle lingue e alle civiltà più remote, poteva avere lidea mirabile di affrontare questo enigma nella cornice di una sorta di romanzo poliziesco, dove il Dupin o lo Sherlock Holmes è evidentemente Dumézil stesso. Il risultato è questo libro (1984), sorprendente per labilità nellanalizzare una questione insolubile come per la maestria con cui questa ricerca rigorosa viene ironicamente trasposta in forma romanzesca. Lorientalista Espopondie, trasparente alter ego di Dumézil nellindagine, non vuole altro che far funzionare la ragione sino alle estreme conseguenze. Così non condivide latteggiamento di coloro che, «col pretesto di proteggersi dallirrazionale, rifiutano di registrare quelle osservazioni che lo stato delle nostre conoscenze non consente di interpretare». Al giovane amico che lo assiste nella ricerca consiglia di leggere Nostradamus come fosse Virgilio, ricostruendo il suo lessico e spiegandolo attraverso il suo stesso linguaggio. Allora la quartina di Nostradamus, come un fiore giapponese nellacqua, si espande in unimmagine compiuta, allucinatoria, e da ogni parola affiora un dettaglio di quella notte fatale della nostra storia, «come se qualcosa o qualcuno parlasse dentro di lui [Nostradamus], rivolgendosi a ciò che nel nostro cervello è predisposto e organizzato per accogliere suoni articolati e riconoscerne il senso». In unintervista di pochi mesi precedente alla sua morte, Dumézil affermava che aveva scritto questo libro «per divertirsi». Ma i giochi di un sapiente sono quanto di più serio. E Dumézil stesso lo ha lasciato intendere nella seconda parte di questo libro, che è una illuminante riflessione su un altro enigma: il significato delle ultime parole di Socrate, «Siamo debitori di un gallo ad Asclepio». Secondo Dumézil, quelle parole erano la risposta del filosofo a un sogno. Con esse, Socrate mostrava di aver capito che la sua partita era già «stata giocata, nellinvisibile che comunica col nostro mondo solo attraverso oracoli, segni, sogni premonitori». -
Ex captivitate salus
«Nelle desolate vastità di un’angusta cella», fra il 1945 e il 1947, Carl Schmitt si trovò a scrivere questo libro, il suo più intimo e personale, dura resa dei conti con se stesso e con l’epoca. Il più controverso, ma anche uno fra i più grandi giuristi del nostro tempo, guarda indietro ai suoi anni e ai secoli in cui è fiorita e sfiorita la dottrina a cui per tutta la vita si era dedicato: lo ius publicum Europaeum. Ma, per parlare di se stesso, Schmitt parla di altri, di certe figure che hanno accompagnato, più o meno segretamente, tutta la sua vita, qui evocate in pochi tratti che toccano subito l’essenziale: Tocqueville, ma anche Stirner; Kleist, ma anche Däubler; Bodin, ma anche Hobbes. Figure tra cui si formano contrasti laceranti, quelli appunto in mezzo a cui Schmitt ha operato e ha pensato. «Ho conosciuto le escavazioni del destino, / vittorie e sconfitte, rivoluzioni e restaurazioni, / inflazioni e deflazioni, bombardamenti, / diffamazioni, mutamenti di regime ... / fame e freddo, campo di concentramento e cella d’isolamento». E in quella ultima solitudine si elabora la «sapienza della cella» che parla in queste pagine pubblicate in Germania nel 1950 e mai più ristampate, per volontà dell’autore, il quale per altro considerava Ex Captivitate Salus un «libro chiave». -
La vita è altrove
Dal momento in cui Jaromil viene concepito, egli è il poeta. Così vuole sua madre, e fantastica che Jaromil sia nato non per fecondazione del marito ma di un Apollo di alabastro. Con lo stesso spirito, questa madre accompagnerà invisibilmente il figlio nel letto dei suoi amori, come lo assisterà sul letto di morte: morte di un poeta adolescente che voleva darsi tutto alla rivoluzione. Il poeta, la madre, la giovinezza, la rivoluzione: chi non sente una qualche reverenza verso queste parole? In esse avvertiamo il soffio delletà lirica, dello spirito adolescente, di ogni pretesa di innocenza. Ma questo romanzo, tanto più duro nella sostanza quanto più arioso nel suo articolarsi e agile nel suo sarcasmo, ci mostra anche il «sorriso insanguinato» dellinnocenza. Qui non si dice nulla contro la poesia in sé, ma si svela una possibilità del mostruoso che è interna alla poesia e ben pochi sanno riconoscere. E qui si mette in scena, con una precisione e una distanza che non hanno uguali, quellèra in cui «il poeta regnava a fianco del carnefice». Ora non potremo più guardare al poeta, alla madre, alla giovinezza, alla rivoluzione con occhi devoti. Ora saremo condotti per mano a constatare come, per un poeta che la morte coglierà prima dei ventanni, il supremo compimento possa anche essere la delazione. «Forse polizia e poesia vanno molto più daccordo di quanto alcuni non pensino» riflette il poeta. La vita è altrove è apparso per la prima volta nel 1973. -
Gli anni dell'attesa
Con questo libro Giovanni Macchia torna a visitare le proprie radici, le figure con cui si confrontò agli inizi della sua vita di scrittore. Alcune gli apparvero nelle aule di Palazzo Carpegna, dove aveva sede allora la facoltà di lettere di Roma. Dietro quelle alte e strette porte, che conservavano un loro disegno settecentesco, Macchia scopriva le inflessioni di una parola vaga e imperiosa, che avrebbe dominato la sua vita: letteratura. «Mi trovavo nella situazione descritta in una famosa lirica di Baudelaire. Ero anchio il bambino avido dello spettacolo e che odia il sipario». Erano gli «anni dellattesa». Così cominciano a sfilare le figure decisive, come P.P. Trompeo, che porta a lezione un libro nuovo fiammante, il Baudelaire che inaugurava la celebre collana della Pléiade. E proprio quello era lautore a cui Macchia sarebbe rimasto più fedele. O figure come Cesare De Lollis, erudito di vasta latitudine, viaggiatore fra culture «diverse per la natura del suolo e per vegetazione». In De Lollis, come poi in Macchia stesso, i fatti e le idee non si divaricano mai in una incongrua opposizione. Sempre nella costellazione della «cultura», intesa nel senso di De Lollis, come mediazione fra i severi studi storici e la percezione estetica, si disegnano i profili di Ferdinando Neri, con il suo «male della perfezione», o di Luigi Foscolo Benedetto, «in cui la impeccabile precisione filologica si allea ad un temperamento critico vivido e appassionato». Infine, in ragionata progressione, e delicatamente svincolandosi dallambito universitario, Macchia passa alle opere di quei saggisti che furono maestri della prosa oltre che della storia, e spesso usarono la forma dellelzeviro per sviluppare una preziosa variante italiana dellessay: Emilio Cecchi e Mario Praz, Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti. Con occhio attento alle più sottili differenze fisiognomiche, Macchia si muove fra loro come un vecchio amico, partecipe degli stessi climi della sensibilità, e quasi come un complice e continuatore, ancora una volta per una via inconfondibile, della loro opera. Questo libro di ritratti include, seminascosto, un autoritratto e insieme ci offre la prima ricognizione coerente di una zona fra le più alte della cultura italiana, tuttora ricca di suggestioni neglette, che aspettano solo di essere colte. -
Venezia salva
Da Otway a Goethe, a Hofmannsthal, la storia dei congiurati spagnoli che nel 1618 volevano impadronirsi di Venezia e distruggerla ha spesso colpito l’immaginazione di grandi scrittori. Ma soltanto con i luminosi frammenti della Venezia salva di Simone Weil la vicenda sembra averci trasmesso la sua ultima verità: «una città perfetta, che sta per essere piombata nel sogno orrendo della forza; un uomo attento che, all’improvviso, la vede e la salva». In questo «teatro immobile» il perno è Jaffier, il congiurato che tradisce i compagni e salva la città. In lui si rinnova la figura del giusto che blocca la corsa del male, consumandolo in sofferenza sulla propria testa. A fronte di Jaffier è un altro congiurato, Renaud, posseduto dal sogno della forza. «Monomaniaco, elegantissimo, spaventosamente veridico», egli conosce con piena lucidità l’articolarsi della forza nelle cose e nella mente. Il conflitto fra questi due esseri, mentre sullo sfondo intravediamo il «roseo gioiello» di Venezia, è uno dei rarissimi nel teatro del nostro secolo che possa essere definito tragico. Qui la parola distruzione, uscendo da ogni vaghezza, assume connotati precisi come quelli delle pietre di una città. Qui possiamo constatare, una volta per tutte, come la parola d’ordine degli oppressori sia sempre la stessa: «Noi facciamo la storia». -
Il formidabile esercito svizzero. La Place de la Concorde suisse
«Non sapevo nemmeno che esistesse»: così dice una anonima voce di italiano, a proposito dell’esercito svizzero, nelle prime righe di questo libro. Ma l’esercito svizzero esiste, ed è anche una ben strana creatura. Gli israeliani hanno modellato il loro esercito, di ben nota efficienza, su quello degli svizzeri, che non fanno guerre da cinquecento anni. L’invenzione militare degli svizzeri si chiama Principio del Porcospino: arrotolarsi a palla e sfoderare gli aculei. Non attaccare mai, ma mostrare all’attaccante che non avrà vita facile. Così è vero che «non c’è praticamente un paesaggio in Svizzera che non possa far vendere un calendario». Ma è anche vero che «non c’è praticamente un paesaggio in Svizzera che non sia pronto a eruttare fuoco e fiamme per respingere un invasore». Per accertare tutto questo, e tanti altri dettagli illuminanti, McPhee ha scelto la via più diretta: partecipare alle esercitazioni di un reparto militare svizzero e raccontarci quello che ha visto. Sottomettendosi alle regole di questo singolare club, che riunisce in una solidarietà per la vita banchieri e odontotecnici, autisti e ingegneri civili, guide alpine e cuochi, ha scoperto le nervature nascoste che danno una rara compattezza a questo paese plurilingue e geloso delle proprie contrastanti peculiarità. Tutta la Svizzera confluisce nel suo esercito come i ghiacciai convergono da otto direzioni «congiungendosi in un gelido incrocio» che si chiama La Place de la Concorde Suisse. E «questo luogo che non avrà mai bisogno di essere difeso rappresenta ciò che la Svizzera difende». -
Tutti i racconti. Vol. 1: Felicità-Garden party
Agli inizi del secolo una giovanissima neozelandese, Katherine Mansfield, ancora un po’ sperduta in Inghilterra, e provvista solo di «quel tragico ottimismo che troppo spesso è l’unica ricchezza della gioventù» cominciò a scrivere storie comuni di donne (e di uomini) comuni – continuando febbrilmente sino alla morte, che l’avrebbe raggiunta, trentaquattrenne, nel 1923. Letti con l’occhio di oggi, i racconti della Mansfield ci appaiono come una di quelle grandi e inesauribili scoperte che in pochi anni mutarono la fisionomia della letteratura: come il primo Joyce, i romanzi di D.H. Lawrence, la scrittura della Woolf – tre scrittori con cui la Mansfield fu in rapporto, oscillando fra l’ammirazione e l’ostilità. Condivideva con loro la testarda volontà di porre un’esigenza assoluta alla letteratura, ma ancor più di loro la Mansfield era esposta alle correnti infide, alle maligne unghiate della vita, che continuava ad apparirle «sotto le spoglie di una cenciaiola da film americano». E forse proprio per questo la Mansfield ha saputo far parlare nei suoi racconti, più di ogni altro scrittore moderno, la precarietà: come spasimo, fitta, angoscia fulminea, e insieme come meraviglia, ingiustificata estasi, pura percezione. La psicologia qui non ha bisogno di essere dichiarata, ma è assorbita nell’immagine guizzante, nella pulsazione dell’attimo. E la felicità improvvisa, come l’infelicità sorda, sparse in ogni momento e in ogni vita, rare volte ci sono venute incontro con tale intensità, eppure sottovoce, come in queste pagine della Mansfield, «grande abbastanza da dire quello che tutti sentiamo e non diciamo». La presente edizione, divisa in due parti, è la prima completa dei racconti di Katherine Mansfield. -
Confessioni estatiche
Subito in apertura di questo libro Martin Buber volle precisare quale impresa azzardata e preziosa si era proposto nel comporlo: «Queste testimonianze di uomini e donne su qualcosa che essi vissero come esperienza sovrumana non sono state raccolte allo scopo di darne una definizione o una valutazione, ma perché in esse limpeto dellesperienza vivente, la volontà di dire lindicibile e la vox humana hanno creato ununità memorabile. Di questi elementi mi è sembrato degno di essere ripreso ciò che testimoniava, o recava in sé, il segno della parola». In questa voce incontriamo una «bellezza diversa da quella estetica». E, a quel punto, aggiungeva Buber, «nulla so più di gradi, né dellordine gerarchico degli spiriti. Ecco Plotino il Sublime e Attar, il più audace dei poeti; ecco Valentino, il demone segreto del cambiamento di unepoca; ed ecco Ramakrishna, per il cui tramite tutto lo spirito indiano si è di nuovo svelato ai giorni nostri; ecco Simeone, lamico e cantore di Dio dellèra bizantina, e Gerlach Peters, il suo fratello olandese, giovane e lieto di morire; e qui, accanto a loro, ecco Alpais, la pastorella le cui parole quasi mi sembrano troppo accorte; e Armelle, la selvatica serva contadina; e i Camisardi, che mi confidano con rette parole peccati e redenzioni; ed ecco ancora le candide suore innamorate seguite dai goffi borghesi che balbettano le loro storie fantastiche, Hans Engelbrecht e Hemme Hayen. Eccoli qui, uno accanto allaltro, uno con laltro, riuniti nella comunità di coloro che hanno osato raccontare quellabisso; io vivo con loro, ascolto le loro voci, la loro voce: la voce delluomo». Nato come antologia di mistici, proposta da Buber nel 1907 alleditore Diederichs, che lo pubblicò nel 1909, modificato da Buber per ledizione del 1921 (a cui la qui presente si attiene), questo libro diventò dunque una forma senza precedenti né conseguenti, un testo dove una voce sola parla attraverso lingue e stili ed epoche molteplici dellesperienza che più di ogni altra sfugge alla parola: lestasi. Per capire come queste pagine possano trasformarsi in un vademecum insostituibile basterà accennare a due loro lettori. Da una parte Jorge Luis Borges, che usava dire di aver scoperto lessenziale di quanto sapeva sulla mistica dalle Confessioni estatiche. Dallaltra parte Robert Musil, che nei mirabili «dialoghi sacri» fra Ulrich e Agathe dellUomo senza qualità attinge a piene mani da queste pagine, come se la voce che parlava ugualmente in Plotino e in Armelle proseguisse senza ostacolo dove i due fratelli ricongiunti si introducono all«altro stato», nella persuasione di «appartenere non soltanto al mondo vivo e tumultuoso, ma anche a un mondo diverso che aleggiava nellaltro come un respiro trattenuto». -
Il linguaggio dei sentimenti
Marcel Granet e Marcel Mauss, due maestri della ricerca antropologica del nostro tempo, hanno lasciato un insegnamento oggi estremamente attuale. Dopo che l’ondata dello strutturalismo aiutò a rimettere in luce l’opera iniziatrice di questi due studiosi, oggi appaiono ancora più chiari molti temi che nei loro studi andavano, già allora, oltre lo strutturalismo. In questo e in altri vi è, di fatto, una singolare concordanza di atteggiamento e di procedimento fra Mauss e Granet, anche se il primo dedicò i suoi lavori a una sorta di etnografia generale ‘per campioni’, spaziante dalla Polinesia all’Africa e alla Grecia antica, mentre il secondo si dedicò sempre ed esclusivamente allo studio della civiltà cinese. In questo volume sono stati raccolti alcuni saggi fondamentali di Granet e di Mauss, che sembrano idealmente proseguirsi l’un l’altro e intrecciarsi intorno a problemi affini, al cui centro è il linguaggio dei sentimenti. È questo, infatti, uno dei terreni in gran parte incogniti che Granet e Mauss hanno analizzato con portentosa acutezza: dallo studio di Mauss sull’Espressione obbligatoria dei sentimenti a quello di Granet sul Linguaggio del dolore, alle mirabili divagazioni di Mauss sul tema dono-veleno e sul potlatch, in rapporto a fatti tanto diversi quanto il suicidio e la circolazione della moneta, fino alle grandi ricerche di Granet sul modo di rappresentarsi la nascita e la morte nella Cina antica. La somma di questi saggi densissimi dovrebbe dare l’impressione non solo di una riscoperta di studi ormai classici, quanto di una prospettiva apertissima su una futura antropologia che prenda veramente alla lettera la famosa esigenza metodologica di considerare i fatti sociali come fatti totali. I saggi che compongono Il linguaggio dei sentimenti sono apparsi su rivista tra il 1911 e il 1928. -
Tutti i racconti. Vol. 2: Il nido delle colombe-Qualcosa di infantile ma di molto naturale-Una pensione tedesca
Agli inizi del secolo una giovanissima neozelandese, Katherine Mansfield, ancora un po’ sperduta in Inghilterra, e provvista solo di «quel tragico ottimismo che troppo spesso è l’unica ricchezza della gioventù», cominciò a scrivere storie comuni di donne (e di uomini) comuni – continuando febbrilmente sino alla morte, che l’avrebbe raggiunta, trentaquattrenne, nel 1923. Letti con l’occhio di oggi, i racconti della Mansfield ci appaiono come una di quelle grandi e inesauribili scoperte che in pochi anni mutarono la fisionomia della letteratura: come il primo Joyce, i romanzi di D.H. Lawrence, l’opera della Woolf – tre scrittori con cui la Mansfield fu in rapporto, oscillando fra l’ammirazione e l’ostilità. Condivideva con loro la testarda volontà di porre un’esigenza assoluta alla letteratura, ma ancor più di loro la Mansfield era esposta alle correnti infide, alle maligne unghiate della vita, che continuava ad apparirle «sotto le spoglie di una cenciaiola da film americano». E forse proprio per questo la Mansfield ha saputo far parlare nei suoi racconti, più di ogni altro scrittore moderno, la precarietà: come spasimo, fitta, angoscia fulminea, e insieme come meraviglia, ingiustificata estasi, pura percezione. La psicologia qui non ha bisogno di essere dichiarata, ma è assorbita nell’immagine guizzante, nella pulsazione dell’attimo. E la felicità improvvisa, come l’infelicità sorda, sparse in ogni momento e in ogni vita, rare volte ci sono venute incontro con tale intensità, eppure sottovoce, come in queste pagine della Mansfield, «grande abbastanza da dire quello che tutti sentiamo e non diciamo». La presente edizione – divisa in due parti di cui la prima in due volumi e la seconda in tre – è la prima completa dei racconti di Katherine Mansfield.