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Manoscritto trovato a Saragozza
Destinata a diventare uno dei classici della letteratura polacca, quest'opera scritta in francese all'inizio del 1800, ha avuto peripezie tra le più singolari che la storia della letteratura ricordi. Si deve al noto critico e scrittore Roger Caillois di averla riscoperta per il lettore occidentale pubblicando in Francia, nel 1958, la parte del testo originale arrivata fino a noi, e facendola precedere da una prefazione che racconta la complicata storia del libro: una storia di manoscritti smarriti, di pubblicazioni parziali a Pietroburgo e a Parigi, di plagi successivi (in cui troviamo implicati anche alcuni nomi illustri, come quelli di Charles Nodier e di Washington Irving) che mettono capo a un piccolo scandalo tra letterati e a un processo. Del testo integrale, andato smarrito, esiste solo, da oltre un secolo, una traduzione polacca, non sappiamo quanto fedele. Jan Potocki, l'autore di questo libro, è un nobile polacco, appartenente all'alta società cosmopolita della fine del Settecento, di casa in tutte le capitali d'Europa, viaggiatore curioso e attento che soggiorna a lungo nel Marocco e si spinge persino, al seguito di un'ambasceria russa, ai confini tra la Mongolia e la Cina. Uomo politico illuminato, legato ad ambienti giacobini, poi consigliere privato dello zar Alessandro I, studioso infaticabile d'antichità, autore di lucide relazioni di viaggio e di opere storico-etnografiche (oggi lo si considera uno dei fondatori dell'archeologia slava), Potocki diede sfogo al sottofondo raffinatamente morboso del suo temperamento nel «Manoscritto trovato a Saragozza», un'opera di fantasia che lo tenne occupato negli ultimi dodici anni della sua vita, fino al suicidio avvenuto nel 1815. Il «Manoscritto» è una serie di storie di fantasmi, incapsulate l'una nell'altra come scatole cinesi: «un decamerone nero», si potrebbe definire, che tuttavia si stacca dal decorativismo esteriore e gratuito dell'«orrido» romantico per raggiungere l'allucinante suggestione dei grandi simboli indecifrabili. In esso si ritrovano tutti gli elementi del romanticismo nero, banditi e zingare, forche e cabalisti, caverne misteriose e locande malfamate, amori scabrosi e apparizioni diaboliche; ma al lettore attento non potrà sfuggire come tutto questo armamentario tradizionale soggiaccia all'ambivalenza di fondo dell'autore, che, da un lato, sente l'attrazione del magico e anche del macabro, dall'altro il bisogno «illuministico» di liberarsene. In questa tensione intima, una forza visionaria, che crea figure e favole che ci toccano profondamente, si apre la strada in mezzo a situazioni francamente comiche, buffonesche, spesso di puro stampo libertino. Gli effetti sorprendenti che ne derivano, forse anche per l'atmosfera spagnola di cui le storie sono impregnate, richiamano vivo alla nostra mente il nome di Goya, che Potocki conobbe e a cui è attribuito un suo ritratto. Puškin rimase affascinato dal «Manoscritto», tanto da cominciarne una traduzione in versi. Ma è solo oggi, dopo la riscoperta di Caillois, che questo libro si è rivelato a noi come un anello dei più preziosi in quella catena di narrativa che, partendo dalle Mille e una notte di Galland, e passando per il Vathek di Beckford, arriva alle sfrenate fantasie di Hoffmann e alla letteratura onirica dei nostri giorni. -
Lo scimmiotto
Uno dei quattro grandi romanzi classici cinesi, Lo Scimmiotto fu scritto dal letterato Wu Ch'êng-ên nel secolo sedicesimo, ma il materiale della storia è un immenso ciclo di leggende che si era accumulato per centinaia di anni intorno al «viaggio verso l'Occidente» – cioè verso l'India – del monaco Hsüan Tsang, poi detto Tripitaka, per raccogliervi scritture sacre buddiste e introdurle in Cina. La vicenda comincia con la nascita di una scimmia da un uovo di pietra: è lo Scimmiotto, che presto sarà eletto Re delle Scimmie. Essere prodigioso e beffardo, dalla inesauribile vitalità, Scimmiotto adopera astuzie e artifici magici per diventare immortale e, poi, per portare lo scompiglio e la guerra nel cosmo, subissando i celesti con le sue sempre eccessive trovate – ed è una delizia seguire il turbamento provocato nei cieli cinesi, affollatissimi di esseri divini, da questo indiavolato trickster. Infine, nella seconda parte, Scimmiotto, assieme a due altri compagni – Porcellino e Sabbioso, che simboleggiano due potenze dell'essere umano – si riscatterà dalle sue malefatte aiutando Tripitaka nel suo arduo viaggio. Tutto il libro è un moto inarrestabile di fatti e sorprese, un grande romanzo di avventure che ne contiene in sé tanti altri. Aprendosi la strada nella selva di queste vicende il lettore si renderà conto a poco a poco che Lo Scimmiotto è anche un'allegoria, un viaggio mistico, una satira sociale, e vi scoprirà un immenso repertorio di pratiche e tradizioni religiose. Il cielo e i suoi abitanti sembrano qui essere un travestimento della terra e degli uomini, la terra una continuazione del cielo: sfrontatezza e devozione, familiarità con la natura e i suoi prodigi, sapienza psicologica, diffusa ilarità convivono tranquillamente in questo mondo fondato sulla magia, in queste vicende che sembrano fatte per essere raccontate a dei bambini e insieme sono cariche di sottintesi, sicché giustamente ebbe a dire di questo romanzo il suo congeniale traduttore, il grande sinologo Arthur Waley: «Lo Scimmiotto è unico nel suo complesso di bellezza e assurdità, di profondità e insensatezza». -
Il libro dei sogni
«Un tale sognò di vedere nella luna il proprio volto... Un tale sognò di imboccare il proprio membro con pane e formaggio, come se fosse un animale... Un tale sognò di scuoiare il proprio figlio e di farne un otre... Una donna sognò di avere un occhio nella mammella destra... Un tale sognò che dal cielo cadesse una stella, e che un'altra salisse in cielo dalla terra... Un tale sognò di mangiare i propri escrementi insieme al pane, e di gustarli». Il significato di questi e di centinaia di altri sogni ci viene illustrato nell'opera di Artemidoro, vera enciclopedia teorica e pratica del sogno, scritta nel II secolo dopo Cristo, compendio di tutta l'antica e complessa tradizione greca su questo tema, che nel mondo moderno è stato posto, dopo Freud, al centro di tutta la psicologia e si è rivelato una fonte inesauribile di conoscenze e di misteri. Artemidoro era un interprete di sogni per professione e la sua ambizione era di scrivere un manuale definitivo della sua scienza: con diligenza e minuzia, utilizzando tutta la letteratura precedente, oggi in gran parte perduta, e insieme la sua diretta esperienza, Artemidoro classifica tutti i tipi di sogni e i procedimenti che vi operano, elenca le più disparate immagini che vi possono comparire e ne svela i vari sensi. Il risultato è sorprendente: dietro le sue interpretazioni, spesso asciutte e prosaiche, si profila tutto un diverso regime dell'immagine, che getta luce preziosa su quella che era la coscienza psicologica greca. Naturalmente il lettore moderno non potrà resistere alla tentazione di confrontare le interpretazioni di Artemidoro con quelle della psicoanalisi. E anche qui la lettura sarà quanto mai eccitante: proprio nella totale diversità dei presupposti, certe indicazioni sembrano convergere e integrarsi, a riprova che le immagini oniriche costituiscono una realtà che nessun sistema culturale riesce compiutamente a ridurre al proprio codice. Infine, Il libro dei sogni potrà essere consultato direttamente dai suoi lettori di oggi, come Artemidoro voleva: e da questa via inusuale impareremo a conoscere qualcosa di più di quelle misteriose, ambigue figure che escono, secondo le parole di Omero, da due porte, una di corno e l'altra di avorio: «E ai sogni che escono attraverso la porta d'avorio è pericoloso credere, perché portano messaggi che non si realizzano nei fatti, mentre quelli che procedono per la porta di corno hanno potere nella realtà, ogni volta che un uomo li veda». Ma anche sotto un altro aspetto l'opera di Artemidoro è per noi oggi preziosa: come testimonianza vividissima sulla vita quotidiana e i rapporti sociali nella Grecia dell'antichità, i cui usi e costumi ci appaiono limpidamente riflessi nello specchio dei sogni. La presente edizione è dovuta a Dario Del Corno, uno dei più attenti studiosi dell'onirocritica greca, ed è accompagnata da un suo lungo saggio, che ripercorre tutta la storia del sogno nella Grecia antica e analizza i sottili rapporti di Artemidoro con una tradizione che era insieme religiosa, filosofica e popolare. -
E l'uomo incontrò il cane
A Konrad Lorenz è stato conferito il Premio Nobel 1973 per la medicina in riconoscimento della sua opera fondatrice di una scienza che rivela sempre più la sua enorme portata: l'etologia. Ma Lorenz non è soltanto un grande scienziato: pochi libri hanno affascinato così tanti lettori in questi ultimi anni come le storie di animali da lui magistralmente raccontate nell'«Anello di Re Salomone». Ora, in «E l'uomo incontrò il cane», il lettore troverà una sorta di proseguimento di quelle storie, tutto dedicato all'animale che più di ogni altro crediamo di conoscere e sul quale però tante cose abbiamo da scoprire – il cane. Lorenz ci guida qui innanzitutto verso le origini dell'«incontro» fra l'uomo e il cane, quando il rapporto era piuttosto con i due, assai differenti, antenati dei cani attuali: lo sciacallo e il lupo. Queste origini lasciano le loro tracce in tutte le complesse forme di intesa, obbedienza, odio, fedeltà, nevrosi che si sono stabilite nel corso della storia fra cane e padrone. Spesso ricorrendo a dei casi a lui stesso avvenuti, Lorenz riesce in queste pagine a illuminare rapidamente tutto l'arco della «caninità» con la grazia di un vero narratore, con la precisione e la sottigliezza di uno scienziato che ha aperto nuove vie proprio nello studio di questi temi, con la fertile intelligenza di un pensatore che, attraverso le sue ricerche sugli animali, è riuscito a porre i problemi umani in una nuova luce. -
Gli otto peccati capitali della nostra civiltà
In questo limpido libretto del 1973, Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina, affronta, nella prospettiva della biologia e dell'etologia, alcuni problemi capitali che si pongono al mondo di oggi. Tali problemi, secondo Lorenz, corrispondono ad altrettanti «peccati capitali», che la civiltà occidentale ha accumulato nella sua evoluzione e che minacciano oggi di ucciderla. La sovrappopolazione, la devastazione della terra, l'indottrinamento coatto, le armi nucleari, l'ostilità e l'indifferenza che si annidano nel corpo della società sono tutti anelli di una stessa catena fatale, prodotta da un atteggiamento incurante e rapace verso la vita. Distesamente e acutamente, con l'occhio lucido dello scienziato e insieme con appassionata partecipazione, Lorenz analizza le cause e i meccanismi di questi e altri peccati, la cui gravità è spesso tanto maggiore in quanto non vengono riconosciuti come tali – e le sue pagine daranno una prova convincente di quale aiuto prezioso possano offrire antiche e nuove scienze, come la biologia e l'etologia, nel tentativo di comprendere processi che coinvolgono oggi la vita di tutti. -
Lo zen e il tiro con l'arco
Questo piccolo libro è un illuminante, lucido e utile resoconto, scritto da un occidentale, di come un occidentale possa avvicinarsi allo Zen. Un professore tedesco di filosofia, Eugen Herrigel, vuole essere introdotto allo Zen e gli viene consigliato di imparare una delle arti in cui lo Zen da secoli si applica: il tiro con l'arco. Comincia così un emozionante tirocinio, nel corso del quale Herrigel si troverà felicemente costretto a capovolgere le sue idee, e soprattutto il suo modo di vivere. All'inizio con grande pena e sconcerto. Dovrà infatti riconoscere prima di tutto che i suoi gesti sono sbagliati, poi che sono sbagliate le sue intenzioni, infine che proprio le cose su cui fa affidamento sono i più grandi ostacoli: la volontà, la chiara distinzione fra mezzo e fine, il desiderio di riuscire. Ma il tocco sapiente del Maestro aiuterà Herrigel a scrollarsi tutto di dosso, a restare ""vuoto"""" per accogliere, quasi senza accorgersene, l'unico gesto giusto, che fa centro quello di cui gli arcieri Zen dicono: """"Un colpo, una vita"""". In un tale colpo, arco, freccia, bersaglio e Io si intrecciano in modo che non è possibile separarli: la freccia scoccata mette in gioco tutta la vita dell'arciere e il bersaglio da colpire è l'arciere stesso."" -
Al di là del bene e del male
L'opera è divisa in nove capitoli: ""Dei pregiudizi dei filosofi"""", """"Dello spirito libero"""", """"Della mania religiosa"""", """"Aforismi e interludi"""", """"Per la storia naturale della morale"""", """"Noi dotti"""", """"Le nostre virtù"""", """"Popoli e patrie"""", """"Che cos'è aristocratico?"""", chiude l'opera un epodo """"Dall'alto dei monti"""". Nell'opera N. afferma che il problema morale è più essenziale di quello teologico. Per eliminare il pregiudizio della morale è necessario un nuovo indirizzo di cultura e a tal fine si potranno impiegare gli """"spiriti liberi"""", immuni da quel pregiudizio. Conclusione delle tendenze dell'Europa democratica sarà una schiavitù imposta da una forte razza e la futura aristocrazia dominatrice potrà nascere solo da una lunga disciplina."" -
Malina
"Malina"""" è la storia di un abnorme triangolo amoroso e di un abnorme assassinio. Leggibile sui più diversi piani, immediato e insieme carico di riferimenti nascosti, quasi temerario nel toccare anche l'attualità più intrattabile o la più proibita realtà dei sentimenti, questo romanzo narra una storia che ha la massima concretezza, facendola però coincidere con un delirio segreto che appartiene a un'altra realtà, con una favola nera che un mondo visibile potrebbe difficilmente ospitare." -
L' arte del romanzo
In sette testi relativamente indipendenti ma collegati come altrettante tappe di un singolo saggio, Kundera ci parla di quella creatura singolare, imprevedibile, grandiosa e delicata che è il romanzo europeo («arte nata come eco della risata di Dio»). Il suo discorso scavalca con sicurezza ogni pretesa di rigido inquadramento teorico e si dedica invece a un'analisi amorosa di ciò che il romanzo, creatura polimorfa, diventa nelle mani di scrittori così diversi come Kafka e Cervantes, Broch e Tolstoj, Gombrowicz e Flaubert, Diderot e Musil, Rabelais e Sterne – e infine Kundera: perché qui si troveranno i due testi dove Kundera ha detto l'essenziale per chi vuole accedere al segreto dei suoi romanzi. Anche come saggista, Kundera ha il dono stupefacente della trasparenza: le questioni più intricate appaiono nelle sue parole con una nettezza e un'evidenza tali da farci pensare che le stiamo vedendo per la prima volta. E l'aspetto di confessione, da parte di Kundera, sull'arte che oggi egli conosce più di ogni altro, dà a questo libro una pulsazione ulteriore, per noi preziosa: «Devo sottolineare che non ho la minima ambizione di fare della teoria e che tutto il libro non è altro che la ""confessione di uno che fa della pratica""""? L'opera di ogni romanziere contiene implicitamente una visione della storia del romanzo, un'idea di cos'è il romanzo; ed è proprio quest'idea, insita nei miei romanzi, che ho cercato di far parlare»."" -
La gaia scienza e idilli di Messina
Opera filosofica in prosa e versi scritta tra il 1881 e il 1887; le edizioni postume aggiunsero al volume poesie del periodo 1871-1888. Il titolo dell'opera si riferisce alla poesia dei trovatori provenzali chiamata ""gaya scienza"""", """"gai saber"""", come sintesi di canto, cavalleria e spirito libero. Scritta nelle pause di una dura infermità, quest'opera è pervasa dal sentimento della vittoria spirituale contro la tirannia del male, accettando la vita, senza rifiutare nemmeno il dolore. Il preludio in versi consta di 63 epigrammi simbolici. Seguono gli aforismi ordinati in cinque libri."" -
L' apocalisse del nostro tempo
L’Apocalisse del nostro tempo è l’ultima opera di Rozanov, pubblicata nel 1918 con sistema quasi artigianale, sotto forma di opuscoli inviati ai sottoscrittori. Mentre gli avvenimenti della Rivoluzione infuriavano, Rozanov, spossato e ridotto alla miseria, rivolse la stessa penna che aveva saputo esprimere «i filamenti autunnali, i sospiri, quanto è pressoché impercettibile», a descrivere la «svolta apocalittica» che intravedeva. Ne nacque questo libro, fremente cronaca visionaria di un immenso rivolgimento, di una crisi che è poi diventata il nostro stato normale – e insieme pamphlet contro il cristianesimo moderno. Uomo di tutti i paradossi, poco prima di morire come un grande mistico cristiano Rozanov volle lanciare il più devastante attacco contro la propria religione, in cui vedeva l’origine di quell’orrendo progressismo e di quella graduale rescissione dalla natura che aveva sempre aborrito. E qui, ancora una volta, l’intreccio volutamente contraddittorio degli argomenti di Rozanov viene esaltato dallo stile: la Russia come «Impero in briciole» sembra specchiarsi tutta in questa prosa a brandelli, sinuosa e baluginante, abitata in ogni sillaba dalla «fantasticheria russa», da quel «vagare per monti e per valli che è così russo» e sarebbe stato combattuto, come Rozanov intuì subito, dai tanti funzionari della Rivoluzione che si apprestavano a prendere il potere. Col suo invincibile odio-amore, Rozanov ci ha dato in questo libro una visione chiaroveggente del momento più intenso e terribile della storia russa di questo secolo: «Šcedrin, ti prendo e ti benedico. Russia maledetta, Russia benedetta». -
Tingeltangel
«La comicità più singolare che da tempo mai si vedesse sulla scena: una danza infernale della ragione attorno ai due poli della follia»: così Tucholsky presentava l’arte di Karl Valentin. Ogni sera, per lo più nei Tingeltangel bavaresi, locali fumosi, ingombri di sedie e tavolini con lastre di marmo, un pubblico di piccoli impiegati, casalinghe, commercianti applaudiva le apparizioni della sua silhouette allampanata, che subito provocava «un’incessante risata interiore», di una specie però che «non ha nulla di particolarmente bonario». Ma negli anni Venti, mescolati a quel pubblico variegato, si entusiasmavano per Valentin anche esseri così diversi come Brecht e Hesse, Tucholsky e Polgar. La sua «clownerie metafisica» gli aveva fatto inventare, quasi senza accorgersene, ciò che decenni dopo, con qualche pomposità, sarebbe stato chiamato il «teatro dell’assurdo». E le sue «scene» e monologhi, ricamati sull’esasperazione, apparivano come una grandiosa conferma della «inadeguatezza di tutte le cose, compresi noi stessi» (diceva Brecht, ma curiosamente anche Hesse vedeva in Valentin il disvelatore di una radicale «inadeguatezza»). Davanti alla faccia di Valentin, come davanti a quella di Buster Keaton o di Totò, ci sentiamo scossi, al tempo stesso, dalla commozione e dal riso. Ed è difficile guardarlo, o leggerlo, senza essere contagiati dalla sua insondabile perplessità, in cui Polgar riconosceva «un frammento della perplessità ancestrale propria della creatura umana per il fatto di esistere». Scritti in un saporoso bavarese, i testi di scena di Karl Valentin conservano intatta la sua comicità, come una mosca nell’ambra: ne presentiamo qui per la prima volta una scelta dove sono rappresentati i suoi vari generi, dal monologo alla scena a due, alle piccole commedie. -
Il mercante di coralli
Fra i grandi scrittori del nostro secolo, Joseph Roth è quello che più pervicacemente ha saputo tener fede alla figura del narratore. Raccontare storie disparate, intesserle, farle risuonare l’una con l’altra, fare dei propri racconti «una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini»: questo è il sogno che Roth perseguì in tutta la sua vita di scrittore. E lo riconosciamo subito leggendo i suoi racconti riuniti in questo volume, narrazioni sparse nell’arco di più di vent’anni, chiuse alcune nella misura essenziale dell’apologo, dove avvertiamo ogni volta di muoverci all’interno di un unico, ma quanto vasto e variegato mondo.rnDalla febbrile aura espressionista dello Specchio cieco alla pura gioia del nominare, in Aprile, alla snebbiata lucidità mondana del Trionfo della bellezza, sino alla scansione da epos chassidico del Leviatano: molte sono le vie che Roth tenta in questi racconti, e più di una volta si può dire che esse conducano alla terra della perfezione, come nel caso almeno del Capostazione Fallmerayer, della Leggenda del santo bevitore e del Leviatano. Ma, percorrendo di seguito queste pagine, più ancora della compiutezza del singolo testo colpisce la comune linfa che circola in ogni pagina, quasi la continuità fra tutte le storie. Come i coralli per il «mercante di coralli» Nissen Piczenik, protagonista del Leviatano e immagine testamentaria di Roth stesso, qui le singole storie sono di per sé oggetto di un amore inesauribile, vengono osservate e carezzate nella sconcertante varietà delle loro forme, perché tutte ugualmente provengono, tutte sono state nutrite dalle acque profonde, là dove gli oceani comunicano con le paludi dell’Europa centrale. E Roth allora ci appare come il «mercante di coralli» che ogni volta attinge dalla fluidità originaria una storia e la adagia sul tappeto della sua prosa, come uno di quegli esseri nomadi da lui prediletti, che traversavano in ogni direzione, con i loro lievi tesori, l’«unica possibile patria per i senzapatria», l’Impero, prima di scegliere un definitivo esilio. -
Auto da fé
E' l'unico romanzo di Elias Canetti, un'opera solitaria ed estrema, segnata dall'intransigente felicità degli inizi. Qui tutto si svolge nella tensione fra due esseri cresciuti ai capi opposti nell'immenso albero della vita: il sinologo Kien e la sua governante Therese. Questo romanzo aspro, spigoloso, è attraversato da una lacerante comicità, unica lingua franca in cui possa comunicarsi questa storia, prima di culminare nel riso di Kien, mentre viene avvolto dalle fiamme, nel rogo della sua biblioteca. -
La ragione errabonda. Quaderni postumi
Questo volume ci introduce nel laboratorio del pensiero di Colli: l’imponente massa di questi appunti, stesi fra il 1955 e il 1977, ci permette di seguire momento per momento l’intessersi di una speculazione che fu, sin dall’inizio, mirabilmente costante. Colli si affidava alla scrittura con diffidenza – e soltanto quando riteneva di aver raggiunto un risultato preciso. Qui, dunque, già dalle prime pagine ci troviamo nel cuore della sua tematica. Subito è evidente la sua preoccupazione di riconoscere i tratti della «hybris costruttiva della ragione», che egli considerava «responsabile della decadenza». Contro questa «ragione errabonda», inseguita in tutte le sue metamorfosi, in tutte le sue trappole, si è sempre rivolto il pensiero di Colli, ma con un senso di intensa fascinazione, che lo obbligava a descriverla in tutti i suoi meccanismi. Negli appunti qui raccolti assistiamo al tenace lavoro di progressiva sceverazione fra questa ragione, che divampò per la prima volta nella Grecia antica, divenendo infine il fondamento del mondo moderno – e un’altra faccia della Grecia, quella dei «sapienti», a cui Colli intendeva riallacciarsi. Come nei temi, egli fu costante nello studio dei suoi autori: i pensatori arcaici, da Parmenide a Empedocle – quelli appunto che Colli non voleva chiamare Presocratici, ma «sapienti» – Platone, Aristotele, Kant, Schopenhauer, Nietzsche. Si può dire che per lui la discendenza essenziale del pensiero fosse fissata in questi nomi: ai loro testi continuamente ritornava, per opporsi, per scoprirli. In Colli – e nulla lo rende tanto chiaro come questi quaderni postumi – la ricerca teoretica e la ricerca filologico-storica si intrecciavano e convergevano. Infatti, come egli scrisse in un suo appunto, «la sola via d’uscita sembra essere quella alle nostre spalle: procedere a ritroso, nell’esperienza e nella storia, per affrontare il passato al suo apparire».rnAllo strenuo lavoro tecnico che accompagnò la stesura dei suoi libri e delle edizioni da lui curate – testimoniato per esempio dalle ricchissime annotazioni sulla logica aristotelica nel periodo in cui egli tradusse e commentò l’Organon – si unisce in queste pagine un controcanto personale e segreto, prezioso filo per chi voglia intendere i suoi scritti. Seppure ostile alla filosofia sistematica, Colli si rivela, nel procedere della sua elaborazione teoretica, uno stupefacente costruttore, che a poco a poco aggiunge al suo edificio le pietre giuste, a lungo soppesate: e sono spesso le pietre che il nostro mondo ha tentato di gettare via. -
Il tempo e le opere
Questo volume si propone di raccogliere il meglio delle pagine saggistiche e critiche di Gadda finora disperse in riviste e giornali: ventisei scritti, vari per occasione, temi e stile, che vanno dal 1927 al 1968. È questa una zona poco conosciuta, e piena di sorprese, dell'opera di Gadda: non meno delle sue narrazioni, i saggi testimoniano la sua natura di ""mostro plurilingue"""". Così passiamo dal saggio sui """"Promessi sposi"""", che rimane una lettura capitale di quel romanzo, allo scritto sul """"cetriolo del Crivelli"""", di funambolica maestria stilistica, a pagine di prosa mallarmeana, dall'abbagliante biancore, come l'""""Autografo per Giorgio De Chirico"""", a certi testi felicemente polemici, come quello contro l'""""immortale monolingua"""" che da secoli incombe sulla letteratura italiana, rendendola tanto spesso incline a un vizio da Gadda aborrito: """"l'inanità dell'immagine"""". Nelle pagine su D'Annunzio, su Palazzeschi, su Montale troviamo poi altrettanti campioni di una ritrattistica acuminata, cosparsa dei segni inconfondibili del comico gaddiano. In Gadda il sovrapporsi e articolarsi delle lingue mira a inseguire l'inesauribilità del reale: come egli scrisse di Proust, la sua pagina """"è un imbuto sagace, che permette a lui stesso, e dopo di lui al suo lettore, di bere in una lenta sorsata i mille rivoletti, i mille apporti dell'analisi""""."" -
Poesie
«Non ho alcuna esitazione nell’affermare che Czesław Miłosz è uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande» scriveva qualche anno fa un altro poeta, Iosif Brodskij. Poi giunse, nel 1980, il premio Nobel – e molti lettori in tutto il mondo cominciarono a scoprire l’opera complessa e intensa di questo scrittore, che da anni si trovava nella paradossale condizione di essere circondato da persone che non leggevano la sua lingua, mentre i suoi libri erano proibiti a coloro che la leggevano. Nato in Lituania nel 1911, esule dalla Polonia sin dal 1951, Miłosz «ha ricevuto quella che si potrebbe definire l’educazione standard dei paesi dell’Europa orientale, che ha incluso, fra l’altro, l’esperienza del cosiddetto Olocausto, già da lui profetizzata nelle liriche della seconda metà degli Anni Trenta». E «la sua terra, dopo essere stata devastata fisicamente, gli venne sottratta e distrutta spiritualmente» (Brodskij). Questo poeta metafisico, in perpetua complicità con l’invisibile, è stato costretto dalla storia a vivere l’invisibile innanzitutto nella sua forma più letterale e più ossessiva: come ressa dei morti e delle cose scomparse. Il poeta è qui sempre il sopravvissuto, che si mormora un verso sobrio e terribile. «E il cuore non muore quando sembra che dovrebbe». Quei morti sono subito «lontani come l’imperatore Valentiniano, / come i condottieri dei Massageti, di cui non si sa nulla», eppure tendono a riapparire, seduti a un caffè familiare, e guardano il sopravvissuto, «scoppiando a ridere». Che il passato sia connesso a una devastazione totale dà alla memoria, in Miłosz, una dimensione di conquista dell’immagine sul fondo del vuoto. Per questo ogni oggetto, ogni nome, ogni albero da lui nominato hanno una tale evidenza, lacerata ed estatica. Essi si pongono tutti vicino a quella «frontiera mobile / Oltre la quale colore e suono si compiono / E sono congiunte le cose di questa terra». Quella frontiera ci separa da una terra visionaria: Blake e Swedenborg ne hanno dato notizia, e la loro voce risuona in Miłosz. Nel suo verso spesso vibrano insieme una «vastità cosmica della visione» (per lui il primo criterio della grande poesia) e la pura attenzione, insegnata da Simone Weil. Allora, sottintesi tutti i naufragi, il poeta torna a essere «uno dei tanti / Mercanti e artigiani dell’Impero del Giappone / Che componevano versi sui ciliegi in fiore, / I crisantemi e la luna piena». -
La rovina di Kasch
La leggenda della rovina di Kasch narra di un regno africano dove il re veniva ucciso quando gli astri raggiungevano certe posizioni celesti. In quel regno arrivò un giorno uno straniero di nome Far-li-mas, dalla terra di là dal mare orientale. Raccontava storie inebrianti: i sacerdoti, ascoltandolo, dimenticarono di osservare il cielo. Con l'arrivo di Far-li-mas ebbe inizio la rovina dell'antico ordine di Kasch, fondato sul sacrificio. Ma anche il nuovo ordine, dove l'uccisione rituale del re era abolita, sarebbe andato presto in rovina. Rimasero soltanto le storie di Far-li-mas. In questo libro è la Storia stessa, guidata da un accorto cerimoniere, che torna a volgersi verso quelle storie. Il cerimoniere è qui Talleyrand, il più chiaroveggente e il più famigerato, il più moderno e il più arcaico fra i politici. Dando il braccio al lettore, come già lo aveva dato a tante Dame e a tanti Potenti, egli ci introduce a luoghi, voci, gesti, vicende: la Corte di Versailles e l'India dei Veda, l'abbazia di Port-Royal e i portici libertini del Palais-Royal, Maria Antonietta, Bentham, Goethe, Fénelon, Baudelaire, Marx, Chateaubriand, tre sordidi assassini, un bastardo di Luigi XV, un uomo d'armi che si ritira alla Trappa, Napoleone, Joseph de Maistre, Porfirio, Stirner, Sainte-Beuve e molte altre illustri comparse. Ciascuna di queste figure è connessa a ogni altra; e tutte ci riconducono alla stessa origine: la leggenda della rovina di Kasch, quale fu raccontata, circa settant'anni fa, da un vecchio cammelliere; e qui riaffiora in un arcipelago di storie, avvolte, nutrite, invase e cesellate dal mare del tempo. -
Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello
Gli idoli sono le vecchie verità cui gli uomini hanno creduto sinora. Socrate, per N. ha corrotto l'anima greca col veleno della ""ragionevolezza a tutti i costi"""". Affronta poi il problema della trascendenza. Riprende anche un tema favorito, la """"morale come contro-natura"""". Successivamente designa gli errori che hanno traviato gli uomini: la confusione tra causa e effetto, il concetto della causalità, il ricorso a cause immaginarie per spiegare le azioni e infine il concetto del libero arbitrio. Nelle notazioni sulla """"psicologia dell'artista"""" N. esalta l'arte come stimolatrice della vita e vede l'""""ebrezza"""" come condizione preliminare di ogni creazione artistica. Predica infine il ritorno alla natura come """"amor fati""""."" -
Lettere a una gentile signora
"Cara e Gentile Signora"""": così comincia la prima lettera di questo epistolario, scritta il 21 settembre 1935. """"Cara, gentile Signora Lucia"""": questo è l'inizio dell'ultima, scritta ventinove anni dopo. Durante tale periodo, ricco di creazioni e di angosce nella vita di Gadda, la consuetudine epistolare accompagnò i rapporti fra lo scrittore e Lucia Rodocanachi, la """"Gentile Signora"""", mantenendoli a una distanza che per essere giusta doveva essere notevole. Gadda e la Rodocanachi si conobbero alle """"Giubbe Rosse"""", presentati da Montale. Lei era una donna appassionata di letteratura: per anni ricevette amici scrittori nella sua casa di Arenzano, e con loro collaborava spesso come traduttrice. Gadda era attratto dalla """"gentilezza"""" di questa amica, ma la sua invincibile ipocondria lo irretiva in un rapporto dove la deprecazione di se stesso, le scuse e i sensi di colpa trionfavano. Eppure, proprio attraverso tale rete di autoaccuse lievemente maniacali traspare in queste pagine la vita di Gadda, nelle sue delicate oscillazioni: faticosa, ombrosa, tanto più scrupolosa di rispettare le forme quanto più in essa si accumulava una temibile carica di violenza. Nel rapporto fra la """"Gentile"""" Signora e la """"gentilezza"""" di Gadda, qui scandagliata in un saggio di Giuseppe Pontiggia, si celano trappole e inganni che fanno riconoscere in Gadda uno """"dei grandi roditori del mondo borghese"""", che """"se ne nutre mentre continua a scavarlo e cerca di non essere coinvolto nei cedimenti che provoca""""."