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Il museo dell'arte perduta
Immaginiamo un luogo pronto ad accogliere la totalità delle opere d'arte disperse. Sarebbe di gran lunga il più immenso fra i musei esistenti e vi convivrebbero capolavori di ogni epoca, più di quanti ne sono conservati in tutte le collezioni del mondo messe insieme. Statue greco-romane accanto a icone bizantine, dipinti inceneriti nei falò di Savonarola di fianco a migliaia di opere sequestrate e distrutte dai nazisti e a monumenti ridotti in polvere dai miliziani dell'Isis. Ma raccoglierebbe, in primo luogo, un catalogo completo delle ragioni per cui l'arte scompare dalla circolazione: per furto o a causa di un bombardamento, per effetto di catastrofe naturale o di naufragio, per atto vandalico quando non addirittura per mano dello stesso artista che ripudia i frutti del proprio lavoro o ne programma il disfacimento, come per certe opere di Land Art destinate a essere divorate dal tempo e dalle intemperie. Un simile museo sarebbe un monito, un'immagine tangibile della caducità di ogni creazione umana. Emblemi di questa singolare storia dell'arte sono la triste vicenda di tele come Gli spaccapietre di Courbet, messa in salvo insieme ad altri tesori in una torre del castello di Dresda poco prima che questo fosse raso al suolo dalle bombe degli Alleati, o la misteriosa sorte delle opere sottratte alla collezione Stuart Gardner e mai più ricomparse. Destino, quest'ultimo, opposto a quello riservato a un de Kooning rubato da una sala di museo e ritrovato trent'anni dopo appeso in una camera da letto di periferia o a quello degli strabilianti mosaici d'oro che oggi tappezzano Santa Sofia a Istanbul, rimasti nascosti per quattrocento anni sotto l'intonaco imbiancato. Infine, laddove non ha potuto la fortuna o l'indagine investigativa, oggi può la scienza. E così, capolavori smarriti di Goya, Picasso e Malevic sono stati individuati, grazie ai raggi X e ad altre sofisticate tecnologie, dietro successivi strati di pittura. Tali episodi, lascia intendere Noah Charney, dischiudono uno spiraglio e ci ricordano che non tutto è perso, non per sempre. Il vasto repertorio di ritrovamenti tardivi, salvataggi miracolosi o eccezionali agnizioni di opere la cui identità è rimasta a lungo offuscata sta ad attestare che dire perduto è come dire in attesa di essere riportato alla luce. -
L' arte sotto controllo. Nuova agenda sociale e censure militanti
C'è un virus che si propaga nel mondo dell'arte da qualche tempo a questa parte, il politically correct. Ha la forma di un potere tirannico e moralista che attecchisce a biennali, festival e a manifestazioni culturali sempre più consacrate a tematiche antiglobaliste, ambientaliste e femministe. A quest'arte militante si affiancano nuove forme di censura nei confronti di una produzione artistica considerata offensiva verso la morale pubblica. La petizione per rimuovere dalle pareti di un museo il dipinto Thérèse rêvant di Balthus e l'aggiunta di banner oscuranti sui nudi di Egon Schiele in metropolitana sono solo i casi più clamorosi. Abbandonata ogni velleità provocatoria ed eversiva, oggi l'arte si fa vessillo delle lotte sociali e l'artista si lascia avviluppare da una critica buonista. Spesso sprovvisto di competenze specifiche, indossa volentieri l'abito dell'archivista, dello storico o dell'attivista per realizzare progetti che lasciano ampio spazio a documenti, testimonianze e a una fitta impalcatura didattica e sentenziosa. Ma se il valore intrinseco dell'opera passa in secondo piano rispetto al contenuto e alla causa che promuove, che ne è della forza e dell'autonomia che la Modernità le aveva assegnato? A essere in pericolo, in verità, non è solo la nozione di arte. La stessa idea di etica paradossalmente ne esce frammentata in una miriade di categorie - tante quante sono le rivendicazioni identitarie - potenzialmente in conflitto fra loro. In questo breve saggio fortemente polemico, Talon-Hugon ripercorre le tappe del delicato rapporto tra arte ed etica e le confronta con ciò che sta accadendo oggi: la censura viene esercitata non per il bene dell'umanità nel suo complesso ma a profitto di singole categorie o comunità, a scapito dell'artista e del suo modus vivendi. -
Sergej Scukin. Un collezionista visionario nella Russia degli zar
Quando nel 1906 si trova faccia a faccia con lo scandaloso Le Bonheur de vivre di Matisse, Sergej Scukin è colto da un fremito che a stento riesce a controllare. Rampollo di un'illustre famiglia moscovita, a poco più di cinquant'anni Scukin è un consumato collezionista con un vissuto importante alle spalle. Già da un decennio, dopo aver risollevato le sorti dell'impresa tessile paterna, ha preso a frequentare Parigi dove può ammirare i pittori d'avanguardia esposti ai salon: sono i Monet, i Degas, i Cézanne, i Gauguin e i Van Gogh che vanno via via a rivestire con le loro tinte oltraggiose le pareti di palazzo Trubeckoj. In quel 1906, dunque, Sergej riconosce l'ondata di emozione che lo travolge quando sente sua un'opera fin dal primo istante. È l'inizio di un legame complice e fecondo con Matisse, grazie a cui nasceranno capolavori come La Danse e La Musique, e che segna il culmine della visione profetica di Scukin, espressa alla perfezione dal suo monito al pittore francese: «Il pubblico è contro di lei, ma il futuro è dalla sua parte». Qualche anno dopo, a fare ingresso nella sua dimora sarà niente meno che Picasso: accolto inizialmente con quella circospezione che si riserva a un nuovo ospite, finirà per dominare il suo già eclatante corpus di tele. Prende forma così una collezione ineguagliata che, prima ancora di essere requisita dallo Stato in seguito alla Rivoluzione del 1917, sarà regolarmente aperta al pubblico. Di fronte a quel vortice di colori i giovani artisti russi sono investiti da uno choc culturale pari all'euforia per quei bocconi infuocati che ispireranno i lavori delle future generazioni. Nell'inquadrare le vicende dell'uomo e del mecenate, Semënova e Delocque non possono fare a meno di rievocare anche il destino dei quattro fratelli che hanno giocato un ruolo decisivo nella sua avventura: Nikolaj, Pëtr, Dmitrij e Ivan Scukin, emblemi dei diversi volti del collezionismo, hanno contribuito con le loro raccolte ad arricchire il patrimonio dei musei russi. Insieme a loro Sergej è protagonista di una saga familiare che intreccia la turbinosa storia della Russia a cavallo tra il XIX e il XX secolo con quella della rivoluzione artistica che negli stessi anni ha sconvolto l'Europa. -
Morozov e i suoi fratelli. Storia di una dinastia russa e di una collezione ritrovata
Eredi di una casata di industriali tessili la cui ascesa sociale è intrisa di leggenda, i fratelli Morozov non passano di certo inosservati. Colti, raffinati e al contempo fuori dagli schemi, incantano l'intelligencija moscovita con le loro gesta eccentriche: vestono alla moda e frequentano femmes fatales, giocano d'azzardo e abitano palazzi dagli stili a dir poco eclettici, amano l'arte e, soprattutto, la collezionano. Michail è il primo a volgere lo sguardo alla nuova pittura francese, ma dopo la sua morte precoce sarà Ivan a seguirne le orme assecondando una passione che non tarda a prendere il sopravvento. Dal 1904 lascia le sue fabbriche tutte le volte che può per far visita ai mercanti parigini più in voga, ma di rado si fa abbagliare dalle loro proposte. Ha un'idea precisa delle opere che cerca e una visione chiara di come esporle nelle sale del suo palazzo. Nella maniacale caccia ai dipinti più eccelsi dei maestri che predilige sa essere paziente come nessun altro e, a detta di Vollard che lo soprannomina il ""russo che non contratta"""", non lesina mai. Nel giro di pochi anni mette insieme una collezione superba che spazia dagli impressionisti a Cézanne, da Matisse e Picasso ai migliori pittori russi coevi. Una raccolta che non ha nulla da invidiare a quella del compatriota Sergej Scukin, con la quale condividerà la triste sorte all'indomani della Rivoluzione. I capolavori che animavano le pareti del palazzo di via Precistenka verranno infatti requisiti dallo Stato, smistati come carte da gioco tra Mosca e San Pietroburgo e lasciati a languire nei depositi dei musei per decenni prima di andare a costituire il nucleo di arte moderna del Museo Puskin e dell'Ermitage. A restituire a questa collezione il suo originario splendore è ora Natalia Seménova, che con piglio romanzesco riporta in vita lo sbalorditivo personaggio che fu Ivan Morozov, strappandolo all'oblio del rivolgimento fatale che ne ha oscurato la memoria."" -
Viceversa. Il mondo visto di spalle
Che siano solitarie o in compagnia, ignare o consapevoli di essere guardate, ribelli o ironiche, candide o sensuali, le figure di schiena parlano una lingua che ci affascina, e sono presenza costante nella storia dell'arte. La prima a voltarci le spalle è stata, in età romana, la Flora di Stabia, ponte simbolico tra il mondo di profilo degli antichi egizi e la pittura italiana del Trecento, epoca in cui i soggetti di schiena fanno la loro comparsa. Ricorrenti nel corso del Rinascimento perlopiù come parte di scene collettive, diventano protagonisti nel Seicento, grazie alla pittura fiamminga. E se in Giappone le geishe da tempo immemore nascondono il volto lasciando scoperto il collo, chiave d'accesso all'intimità carnale, è nell'Ottocento che in Occidente l'inquadratura sulla nuca comincia a stringersi, fino a diventare Leitmotiv pittorico e letterario pari a quello delle Rückenfiguren, icone della contemplazione romantica. Nel Novecento il mondo visto da tergo offre visioni eccentriche e dirompenti e propone un nuovo punto di vista sull'arte e i suoi spettatori. Eleonora Marangoni ha scelto le sue figure di schiena attraverso i secoli, mescolando letteratura e fotografia, cinema e pittura, video art e fumetto. Di queste presenze, che accosta per associazione o isola nella loro iconicità, evoca il carattere simbolico e la cifra poetica, per mostrarci come il potere di tali immagini nasca da quello che non dicono, dall'inesauribile esercizio dell'immaginazione che sono capaci di innescare. -
La notte dei simulacri. Sogno, cinema, realtà virtuale
Avvolti dalle spire della notte, tutti noi abitiamo spazi in cui i suoni, le immagini e le persone che ci circondano sembrano vividi e tangibili. Ma una volta aperti gli occhi, l'incantesimo si spezza e queste apparizioni tinte di follia o di stupore si rivelano soltanto un sogno. A pensarci bene, è ciò che accade anche durante una simulazione di realtà virtuale, un'esperienza multisensoriale in cui il flusso degli eventi può essere interrotto semplicemente sollevando il visore, proprio come in un brusco risveglio. Mondo onirico e virtuale condividono infatti molto più di quanto si creda: entrambi fanno del punto di vista soggettivo il centro assoluto, e soprattutto entrambi configurano una relazione estetica con l'immagine che comincia a essere indagata a partire dall'Ottocento - il secolo che più ha insistito nel portare alla luce i meccanismi del sogno - e trova con l'avvento delle tecnologie digitali la sua piena e compiuta realizzazione. Nel mezzo, a fare da ponte mediale, il cinema, che nel Novecento ha dato forma a fantasie e incubi traghettando l'esperienza immersiva fuori dalla rigida bidimensionalità dello schermo, ""bucandone"""" la superficie proprio come Buster Keaton in uno dei suoi più celebri film. Scopriremo quindi che cosa i primi sensazionali panorami e ciclorami hanno in comune con la new media art di Zoe Beloff e Char Davies, come Topolino vada a braccetto con Cocteau e Kurosawa e in che modo i moderni dispositivi VR possono essere considerati un'evoluzione delle mascherine per dormire: una ricognizione archeologica nella storia dei media e nel concetto di immersività che apre la strada alla comprensione di un nuovo tipo di orizzonte artistico, proiettato oltre il puro dato visivo."" -
Breve storia delle macchie sui muri. Veggenza e anti-veggenza in Jean Dubuffet e altro Novecento
Un giorno fra i tre e i due milioni e mezzo di anni fa, un australopiteco si aggirava nella valle di Makapan, in Sudafrica, quando qualcosa all'improvviso attirò la sua attenzione. Era un ciottolo di diaspro, il cui aspetto, modellato dal lavorio degli agenti naturali, lo rendeva simile a un cranio umano. Tre cavità su una superficie rotonda ed ecco apparire un volto: in un mondo che fino a quel momento si era limitato alla pura esistenza, nasceva per la prima volta un'""immagine"""". L'attitudine a scorgere figure nei sassi o nelle nuvole presuppone una facoltà innata nell'uomo, quella di fraintendere la realtà con saggezza, attribuendole un senso. Dal Paleolitico in poi questo delirio d'interpretazione, per dirla con Dalí, non ha cessato di avere ripercussioni sulla produzione artistica, facendo di chi lo pratica un """"veggente"""". Ma se è vero che negli sputi sulle pareti di un ospedale Piero di Cosimo riusciva a scorgere addirittura delle scene di battaglia, nel Novecento si manifesta anche un movimento opposto: lasciando che sia la figura a degenerare in macchia, si aprono le porte dell'anti-veggenza. L'ossessione di Max Ernst per le screpolature del legno, materia informe e viva per i suoi celebri frottages, e la predilezione di Pierre Bonnard per le scene domestiche in cui i contorni abituali si dissolvono nell'illeggibilità si rivelano così facce della stessa medaglia. Due tendenze che trovano un anello di congiunzione nell'opera di Jean Dubuffet, che con le sue impronte, frutto della casuale impressione di briciole, sale e polvere su una lastra, e le sue testure - in cui anche una barba finisce per essere un'esperienza di visione incongruente -, ha dato corpo alla disposizione dell'arte contemporanea a scompaginare lo sguardo sul reale. E proprio facendo di Dubuffet il suo filo rosso, Adolfo Tura, in maniera acuta e imprevedibile, insegue i mille rivoli - arte, filosofia e letteratura tra gli altri - in cui veggenza e anti-veggenza affiorano come strumenti all'apparenza antitetici ma in grado di sussurrare risposte alla stessa inquietudine novecentesca."" -
L' arte del falso
È il 1947 e Han van Meegeren è sotto processo per alto tradimento: accusato di aver venduto durante la guerra un pezzo del patrimonio culturale olandese al gerarca nazista Hermann Göring, rischia l'esecuzione capitale. Il ""Vermeer"""" in questione l'ha dipinto lui, ma nessuno gli crede. Per dimostrarlo, gli viene chiesto di eseguirne una copia lì, seduta stante. La risposta sprezzante di van Meegeren non si fa attendere: «In tutta la mia carriera non ho mai dipinto una copia! Ma vi dipingerò un nuovo Vermeer. Vi dipingerò un capolavoro!». Le motivazioni che spingono una mano così ingegnosa a commettere questo genere di crimine sono le più svariate, ma il livore nei confronti dell'establishment artistico o la sfida verso i cosiddetti occhi esperti sono un motore di gran lunga più potente della mera speculazione. Se imitare le opere dei grandi maestri è stata per lungo tempo una consuetudine, alcuni hanno continuato a farlo per semplice diletto o per il gusto di provocare, con l'autocompiacimento tipico di chi si misura con i giganti della storia dell'arte. Noah Charney ci scorta in un'avventurosa spedizione tra storia, psicologia e scienza, alla scoperta dei drammi e degli intrighi che circondano le vicende dei più famosi falsi d'arte: dalle """"copie non originali"""" di Dürer a opera di Marcantonio Raimondi alla coppa in oro del maestro orafo Reinhold Vasters finita al Metropolitan con la firma di Benvenuto Cellini, fino alle imprese di Wolfgang Beltracchi, vero e proprio mago della truffa che ha prodotto una quantità incalcolabile di capolavori contraffatti diventando addirittura protagonista di un documentario di successo. Il pubblico, del resto, rimane sempre affascinato da questi loschi personaggi, tanto che i criminali spesso passano per eroi. Dotati di un fascino oscuro, consumati dalla hybris di riscrivere la storia, i falsari creano inganni perfetti per dimostrare di essere geniali. E in molti casi lo sono davvero."" -
In posa. L'arte e il linguaggio del corpo
Con le sue magistrali intuizioni, Morris ci racconta come gli artisti sono riusciti a dare forma nelle loro opere ai mutamenti che, nel corso dei secoli, hanno interessato gli usi e le convenzioni sociali.rn«Desmond Morris compone una raccolta di gesti ricavati dai capolavori dell'arte. Un album dedicato al linguaggio del corpo» - Gregorio Botta, RobinsonrnTutte le volte che un artista si appresta a realizzare un ritratto non può fare a meno di interrogarsi sulla posa da dare al soggetto. Lo raffigurerà in piedi, seduto oppure disteso? Quale sentimento trasparirà dall'espressione del suo volto? Le mani saranno incrociate sul petto o intente a compiere qualche rito apotropaico? Certo, un dipinto ci cattura in primo luogo per la qualità della pittura e per l'identità del protagonista, ma ogni gesto, espressione o postura del corpo è in realtà la chiave di uno scrigno all'interno del quale si possono scovare tracce dei costumi di un particolare periodo storico e retaggi di culture lontane nel tempo e nello spazio. E chi meglio di Desmond Morris poteva raccogliere la sfida di raccontare una storia del linguaggio del corpo che fosse anche una delizia per la curiosità del lettore? Coniugando le sue due anime di etologo e di artista surrealista, l'autore ci guida in un singolare percorso attraverso le pose che per secoli - dalla statuaria romana fino alla cultura pop - hanno solleticato l'attenzione degli appassionati d'arte. Scopriremo così perché Napoleone aveva sempre la mano destra infilata nel panciotto e perché i sovrani erano spesso ritratti con un piede rivolto verso lo spettatore. Se poi è vero che alcuni gesti come il pugno agitato in aria hanno valore universale, una linguaccia può essere interpretata come manifestazione di una natura demoniaca o come semplice insolenza infantile a seconda dell'epoca in cui compare. Con le sue magistrali intuizioni, Morris ci racconta come gli artisti sono riusciti a dare forma nelle loro opere ai mutamenti che, nel corso dei secoli, hanno interessato gli usi e le convenzioni sociali. Nel farlo, incappa in sorprendenti somiglianze ed eterni ritorni riscoprendo gesti da tempo dimenticati e inondando di nuova luce anche i capolavori che ci sembravano più familiari. -
Il mio Morandi
Se molto è già stato detto sul Giorgio Morandi artista, è ancora possibile accostarsi «sotto altro aspetto» all'uomo senza per questo eludere le tappe della sua fortuna critica. È proprio quanto fa Luigi Magnani, collezionista e artefice della fondazione che porta il suo nome: forte della lunga e profonda amicizia che lo legò al pittore bolognese, mette la sua erudizione e sensibilità al servizio di un'affinità elettiva che si traduce in un affettuoso ritratto. Senza mai ricadere in una facile agiografia o in un'evocazione pedissequa dell'opera, queste memorie amplificano i tratti sostanziali della figura di Morandi, lasciando che a essere rivelatrici siano le sue stesse parole, l'essenza stessa di quel furor creativo che si manifesta nei gesti quotidiani, come quello singolare di ricercare con il cannocchiale l'esatta inquadratura del paesaggio («Lo vede lassù il suo quadro? L'ho dipinto in questa stanza»). L'artista emerge così «nei suoi gusti, nei suoi umori, e non meno nelle sue qualità», tra cui spicca, come scrive Stefano Roffi nella nuova prefazione, l'aver sempre rifuggito qualsiasi appartenenza artistica, dipingendo solo «per quei pochi che sentiva partecipi del suo mondo». ""Il mio Morandi"""", apparso per la prima volta nel 1982, è la testimonianza di una personalità schiva e raffinata, ed è accompagnato da un insieme di lettere dell'artista che, quasi duplicando la narrazione, la rendono maggiormente tangibile. Rileggerlo oggi non significa solo ripercorrere la storia di un legame ventennale di stima reciproca, significa soprattutto riscoprire il più intimo e peculiare sentire di Morandi. Quello di un enigmatico, stregonesco e rigoroso interprete della natura, riconoscendovi «quanto di umano ha trovato espressione, mediante la forma, nella sua pittura»."" -
Viaggio archeologico nell'antica Etruria
La civiltà etrusca e i luoghi che ne furono la culla sono tutt'oggi studiati anche grazie ai diari di viaggio del Grand Tour, intrapreso da eminenti personaggi come l'esploratore ed etruscologo George Dennis, l'acquarellista Samuel James Ainsley o Elizabeth Hamilton Gray, figura pionieristica dell'etruscologia ottocentesca al femminile. Precursore di questi nomi illustri è Wilhelm Dorow, diplomatico alla corte di Federico Guglielmo III di Prussia, storico, letterato, orientalista ma soprattutto archeologo e collezionista di antichità, tra i primi a viaggiare tra le città dell'antica Etruria con l'attenzione dello studioso, documentando le ricchezze artistiche e archeologiche dell'entroterra senese e aretino con Cortona, Chiusi e Arezzo. Pubblicato quasi vent'anni prima del celebre The Cities and Cemeteries of Etruria di George Dennis, il taccuino di Dorow rappresenta un tassello cruciale per la storia dell'etruscologia e del collezionismo antiquario ed è qui tradotto dall'edizione francese del 1829 e completo delle sedici tavole originali. Dedicato a Bertel Thorvaldsen, con cui Dorow intrattenne negli anni scambi epistolari e dal quale ricevette parole di apprezzamento per la propria collezione, documenta il viaggio intrapreso da Firenze nell'estate del 1827. Accompagnato dal cavaliere Francesco Inghirami, autore - tra le altre - della poderosa opera illustrata Monumenti Etruschi, e dall'artista Giuseppe Lucherini, che aveva l'incarico di riprodurre gli antichi reperti, Dorow si distingue in modo netto dai colleghi inglesi: con una profonda conoscenza del contesto italiano, a lui si devono annotazioni di un'arguzia e precisione indiscusse e per questo ancora di estrema utilità per lo studio archeologico contemporaneo. Il resoconto delle sue visite ai luoghi che conservano i più importanti lasciti etruschi e alle principali collezioni private di antichità etrusche si accompagna a una descrizione dettagliata dei reperti, resa possibile anche grazie ai disegni minuziosi di Lucherini. Emerge da queste pagine una sorta di istantanea dell'Etruria del XIX secolo, che fa risaltare il fondamentale contributo di Dorow nella ricostruzione storica delle collezioni e delle loro sorti, nonché nel decisivo passaggio da un puro interesse antiquario allo studio scientifico del mondo etrusco. -
I libri di Vincent. Van Gogh e gli scrittori che lo hanno ispirato
Tradotto in cinque lingue e riccamente illustrato, questo saggio spazia dai grandi capolavori alle opere minori di Van Gogh e mostra come i libri, l'uomo e l'opera siano intrecciati in modo indissolubile, dando corpo e voce alla sua frase: «I libri la realtà e l'arte sono una cosa sola per me».«Ricostruendo le passioni e preferenze letterarie e le connessioni con la sua ricerca pittorica, dagli schizzi urbani ispirati a Dickens e a Zola, come I poveri e il denaro, alle Promenades Japonaises di Émile Guimet che guidano la scoperta dell'Oriente di Hiroshige, ci regala così una visione inedita della sua arte» - RobinsonLettore insaziabile, Vincent van Gogh trascorre la sua breve vita divorando centinaia di libri, che sono per lui ricerca, fonte d'ispirazione, ma anche porti sicuri in acque tempestose. Tra le pagine che più lo catturano ci sono quelle di Dickens, Zola, dei fratelli Goncourt e di Maupassant, che legge e rilegge con furore e commozione e di cui medita ogni riga, fino a intessere un dialogo interiore costante con gli autori. Parte dell'energia e della tensione creativa che anima la sua pittura trae linfa proprio da questa irresistibile passione. D'altra parte per Vincent dipingere con le parole o con il pennello non fa differenza, poiché con la grande famiglia dei suoi prediletti condivide un preciso ideale: l'arte dev'essere per tutti, e tutti devono poterla comprendere. Esplorare la vita di Van Gogh attraverso la lente dei libri che amava è la grande intuizione di Mariella Guzzoni che, con fine animus narrativo, ci svela dettagli inediti nascosti tra le pieghe della sua arte: da Natura morta con Bibbia a Lettrice di romanzi, le tante opere che il genio olandese ha dedicato al tema dei libri e della lettura vengono così esaminate sotto una nuova luce. Nel ricorrere alle lettere di Vincent - qui presentate in una nuova traduzione - come principale strumento d'indagine, l'autrice lascia emergere lo spessore di un artista affascinato non solo da alcuni temi ricorrenti ma soprattutto dalla statura morale e intellettuale degli scrittori a lui più cari. -
Come diventare un artista. Ediz. a colori
Diventare un artista è il tuo sogno nel cassetto da sempre. Sei quasi certo di avere tutti i numeri per farcela ma, al momento decisivo, la paura di metterti in gioco ti paralizza.«Una guida al mondo del contemporaneo utile anche per spettatori e appassionati» - la Repubblica Una vocina beffarda ti dice che non sei poi così bravo o che non hai il curriculum in regola; che sei troppo stupido o comunque nemmeno tanto originale; che non la darai a bere a nessuno e tutti si accorgeranno che sei solo un impostore. Se questi demoni ti assillano, mettiti subito all'opera: l'unico modo per scacciare il flagello del blocco creativo è sperimentare ed esporti all'agghiacciante probabilità di un fiasco. Con questa guida traboccante di consigli utili ed esercizi pratici, Jerry Saltz ti invita a entrare nei recessi più bui e minacciosi della tua psiche, a scoprire le risorse che possiedi dentro di te, nel profondo, a dare libero sfogo alla tua visione trovando il coraggio - in nome dell'arte - di spiattellarla sulla pubblica piazza. E se è vero che tutto diventa possibile quando passi dalla titubanza all'azione, allora «non preoccuparti di farlo bene, fallo e basta». Affidati al tuo gusto anche quando è fonte di imbarazzo. Fai dell'immaginazione il tuo dogma. Liberati dalla tirannia delle convenzioni e dirottale al servizio della tua poetica. Senza dimenticare mai che l'arte è sì un contenitore in cui riversare te stesso, ma è anzitutto una strategia di sopravvivenza, un'attività tanto urgente quanto mangiare o respirare. -
The whale theory. Un immaginario animale. Ediz. illustrata
La balena è un animale che si mostra solo a chi sa aspettare: creatura colossale e opalescente, sfugge allo sguardo e come Moby Dick ""elude cacciatori e filosofi"""". L'incontro con lei è fulmineo e fatale; può avvenire in mare, tra i calanchi ossuti degli Appennini, in un museo o scrutando la volta celeste. Nei secoli è stata mostro mitologico e ispiratrice di racconti, fonte di sussistenza e oggetto di devozione, immagine ossessiva che inghiotte e accoglie all'interno del proprio ventre. Per l'artista Claudia Losi diventa un'idea fissa nel 2004. Da quel momento prende il via un'impresa che si declina in molteplici forme e azioni attorno al corpo itinerante di una balenottera comune, ricostruito in tessuto di lana grigia a grandezza naturale. È Balena Project, entità viva che si muove e calamita storie in giro per il mondo, assorbendo suggestioni e mutando continuamente aspetto. """"The Whale Theory"""", capitolo conclusivo di questo viaggio, ne è la materializzazione letteraria. Libro d'artista che custodisce strane e segrete meraviglie, è anche una bussola che consente di ripercorrere questa lunga esperienza poetica attraverso illustrazioni, fotografie e testi, facendosi luogo di incontro di competenze e sguardi diversi, in una polifonia di voci che si mescolano al canto dei cetacei. Lanciata audacemente nell'abisso, Claudia Losi vi si perde con grazia e lascia affiorare una geografia marina fatta di parole e visioni che hanno nutrito l'archetipo della balena nel suo immaginario privato come in quello collettivo: un inno dedicato al mistero di questo imponente abitante degli oceani e alle narrazioni che hanno accompagnato la nostra storia di esseri umani."" -
Il Novecento di Baudelaire. L'arte evanescente
Fulcro di questo saggio è una particolare evoluzione della pittura a partire da quella modernità che Charles Baudelaire ha contribuito a forgiare. Nella sua acuta osservazione dei fenomeni culturali non si è infatti limitato ad amare e commentare molti dei massimi pittori della sua epoca, ma ha anche prefigurato, e perfino invocato, un'arte nuova che avrebbe trovato le prime audaci realizzazioni soltanto a quarant'anni dalla sua morte, avvenuta nel 1867. Dinanzi alle manifestazioni artistiche della modernità, il poeta che più di ogni altro aspirava a evadere anywhere out of the world affermava che l'avversione per il ""naturale"""" era invero il tentativo di afferrare una più profonda verità. Non si trattava di rifuggire il quotidiano, ma di risanarlo artificialmente. Baudelaire rimane quindi aggrappato alla realtà, e al disagio nichilistico di fronte alla confusa casualità dell'esistenza contrappone l'esperienza estetica, identificando nel ricordo il mezzo per introdurre la bellezza nel mondo. Adolfo Tura mette in opera un sapiente intreccio di possibilità e risonanze, fino a scoprire come questa poetica della memoria si ritrovi nei segni e nelle atmosfere di uno dei maestri del Novecento, Henri Matisse. E sotto la fiamma di Baudelaire rilegge alcune delle più significative esperienze artistiche contemporanee, da Mark Rothko a Louise Bourgeois, lasciando in dono al lettore l'incanto di guardare con occhi nuovi l'esercizio di quella che il più moderno dei moderni chiamava """"immaginazione""""."" -
Il desiderio messo a nudo. Conversazioni con Jeff Koons
Un senso di euforia e di pienezza vitale pervade l'universo di Jeff Koons, popolato di opere che immortalano il fascino dei beni di consumo di massa. L'uso di materiali specchianti amplifica l'attrattiva quasi erotica che si sprigiona da questi banali oggetti, e li rende voluttuosi come sirene che seducono lo spettatore invitandolo a partecipare alla stessa idea di successo di cui si fanno messaggeri. Brillante e maniacale come le sue sculture, Koons racconta se stesso e la sua opera in queste conversazioni condotte tra il 2018 e il 2021 da Massimiliano Gioni, che con acume critico sollecita l'artista a ripercorrere le sue tappe più importanti, dall'infanzia in Pennsylvania all'incontro con Duchamp, dai viaggi in Italia alla ricerca dei migliori ceramisti alle recenti commissioni a Parigi e in Qatar. Viene così messa a nudo la filosofia di cui si nutre una pratica artistica che combina tradizione d'avanguardia e un atteggiamento di apertura e di accettazione. Apertura verso un tipo di eccentricità tipicamente americana e accettazione della propria storia, del proprio gusto, dei propri desideri, anche. La libertà di Koons rispetto a ogni divisione fra cultura alta e bassa gli permette di attingere con la stessa naturalezza dai negozi di elettrodomestici o dall'arte rinascimentale italiana, con la quale da sempre intrattiene un dialogo da pari a pari. Una liberazione totale. -
Le gioie di collezionare
J. Paul Getty è stato uno dei più famosi imprenditori petroliferi americani e ""l'uomo più ricco d'America"""" nel periodo 1950-70, ma soprattutto un vorace collezionista d'arte e di antichità. Getty iniziò a collezionare negli anni trenta del Novecento e continuò, con un meccanismo compulsivo, fino agli ultimi giorni della sua vita, nonostante nella sua autobiografia As I See It abbia dichiarato di aver provato varie volte, inutilmente, a smettere. Le gioie di collezionare è un volume dal tono fondamentalmente didattico nel quale J. Paul Getty racconta aneddoti personali, parla della sua filosofia collezionistica, dispensa consigli e rievoca i suoi maggiori successi, incoraggiando i neofiti ad affrontare con coraggio i pericoli e le insidie del collezionismo d'arte e a sperimentare in prima persona, a prescindere dal capitale disponibile, le emozioni, la passione e il richiamo dell'avventura che lui stesso aveva provato. Se il piacere personale delle """"conquiste"""" emerge forte da questi racconti, è fondamentale ritrovarvi anche la genuina convinzione di Getty circa l'influenza civilizzatrice delle grandi opere d'arte e l'importanza di condividerle con il pubblico: «Per quanto possa sembrare banale in quest'epoca fragile e superficiale, la bellezza che si trova nell'arte è purtroppo uno dei pochi lasciti reali e sempiterni delle imprese umane. La bellezza sopravvive anche quando le nazioni e le civiltà crollano e le opere d'arte vengono trasmesse di generazione in generazione e di secolo in secolo, incarnando una continuità storica di valore immenso». Dalla sua collezione privata è nato, per sua stessa volontà, il J. Paul Getty Museum di Malibu."" -
Harald Szeemann. Un caso singolare
Nel settembre del 1988 una giovane Nathalie Heinich fa visita ad Harald Szeemann nel suo studio sul Monte Verità. Heinich è lì per intervistarlo, vuole trovare conferma a un'intuizione: la figura del curatore è sempre più assimilabile a quella di autore e nessuno può dirlo meglio di Szeemann, che realizza mostre da trent'anni e ha ridefinito le pratiche curatoriali secondo una metodologia personale. Szeemann è stato il più giovane direttore di museo alla Kunsthalle di Berna, poi segretario generale di documenta 5 a Kassel. Ma è diventato un mito con la folgorante ""When Attitude Becomes Form"""", la mostra che nel '69 ha rappresentato per lui una catarsi, una rottura con il passato in nome di un'estetica nuova. Nel panorama dei curatori-autori Szeemann è il """"caso singolare"""". Questa singolarità è data da un profilo individuale insostituibile, che si scosta dai sentieri già battuti per inseguire le proprie intuizioni spostando l'asse dal valore ufficiale delle opere alla natura quasi sentimentale del rapporto con l'artista e con la materia da esporre. Il curatore-autore si affida unicamente al proprio sesto senso, alle proprie ossessioni: rifiuta di fare """"carriera"""" per occuparsi di temi che è l'unico a potere trattare. La difesa della singolarità plasma i contenuti delle singole mostre, ma anche il nesso logico fra una mostra e l'altra, fino a formare un insieme che assume sempre più l'aspetto di una grande opera personale, sorretta da un'intima necessità, alimentata dalle circostanze di una traiettoria biografica e non già dal caso o dalle imposizioni di un programma istituzionale."" -
«La mamma». Una mostra di Harald Szeemann mai realizzata
Dopo essere stato il più giovane direttore alla Kunsthalle di Berna e segretario generale di documenta 5 (Kassel, 1972), la decisione di non essere più legato a un'istituzione porta Harald Szeemann a ideare mostre personali che reinventano il formato e il contenuto stesso del medium in modo estremo, concentrandosi non più solo sulla produzione artistica contemporanea quanto piuttosto su contenuti privati o storici da raccontare attraverso la messinscena. Szeemann oggi è ricordato per l'innovatività del suo approccio interdisciplinare e in particolare per la mostra ""When Attitude Becomes Form"""". Questo breve saggio, basato su documenti d'archivio, interviste e appunti inediti trovati presso l'archivio Szeemann di Locarno, analizza una serie di mostre concepite dal curatore svizzero negli anni settanta e mai realizzate, in particolare l'esposizione intitolata """"La Mamma"""". Parte di una trilogia (""""Le macchine celibi"""", """"La Mamma"""" e """"Il sole""""), questo progetto attingeva a vari ambiti disciplinari quali storia delle religioni, arti visive, teosofia, femminismo, con l'intento di allestire una mostra senza arte, dedicata allo studio della donna, all'evoluzione della figura materna, e in generale all'idea di una divinità femminile."" -
Lo strano posto della religione nell'arte contemporanea
A chi ama l'arte non sarà sfuggito un fatto tanto eclatante quanto poco dibattuto: l'assenza nelle gallerie e nei musei di arte contemporanea di opere genuinamente religiose, in cui il sentimento religioso non sia inquinato, cioè, da ironia o irriverenza. La frattura fra arte e religione non è effetto di una congiura del mondo dell'arte, ha radici profonde. Avviata per gradi durante il Rinascimento, si è accentuata nel XIX secolo fino ad arrivare a quel divario che oggi ci appare insanabile. Per ricucire lo strappo bisognerebbe smantellare il discorso su cui si è edificato l'intero progetto modernista. Questo libro, in cui rigore e sperimentazione vanno a braccetto, rompe l'assordante silenzio che avvolge una questione particolarmente difficile da affrontare, tanto nei circuiti ufficiali dell'arte quanto nel campo dell'educazione artistica. Un silenzio che lascia gli studenti a coltivare la loro religiosità di nascosto, pena l'esclusione dal sistema. Forte della sua esperienza alla School of the Art Institute of Chicago, James Elkins affronta con innovativo pragmatismo un ginepraio di pratiche, opinioni e fraintendimenti, e sceglie cinque tra i suoi studenti a rappresentare altrettante posizioni di artisti: cinque racconti esemplari che tracciano una cartografia del travagliato rapporto tra religione e arte contemporanea. Affinché l'abisso di incomprensione fra i due schieramenti possa colmarsi, come si augura l'autore, non basta la buona volontà di figure isolate, servono nuove forme di dialogo, conversazioni inclusive che lascino spazio al portato emozionale ed esperienziale dei partecipanti.