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Immagini dell'Italia. Vol. 1: Venezia-Verso Firenze-Firenze-Città toscane.
Da Puškin a Mandel’štam a Brodskij, la letteratura russa ha continuato a sognare, evocare, scoprire l’Italia. rnrnE nessuno meglio di Pavel Muratov – che vi giunge nel 1907, subito avvertendo un «turbamento dello spirito, dolce fino al malessere», e fra il 1911 e il 1912 pubblica, con enorme successo, Immagini dell’Italia – può svelarci le ragioni di questa «italomania». A Venezia, spiega, «noi beviamo il vino dell’oblio ... Tutto quanto è rimasto alle nostre spalle, tutta la nostra vita precedente diviene un fardello leggero». E gli artefici del Rinascimento gli appaiono «semidei», «eroi del mito», un antidoto all’«accidia della vita russa», a Dostoevskij e Tolstoj. Non a caso nel 1923, invitato a Roma per una serie di conferenze, lascerà per sempre la Russia. «Apparteneva a quella schiera di scrittori come Ruskin e Walter Pater,» ricorda l’amico Sciltian «e aveva più sensibilità e talento di Berenson». Ma non è la sconfinata cultura che apprezzavano Savinio e De Chirico, De Pisis e Longhi a rendere, ancor oggi, la lettura di Muratov una rivelazione. Né l’influsso di Pater, Stendhal e Gogol’. Semmai, il suo procedere per folgorazioni lungo un pellegrinaggio che diventa «ricerca delle proprie radici spirituali» (Petrowskaja); la sua capacità di trasmetterci la vita delle opere d’arte; lo sfavillio delle ecfrasi e l’incanto di una lingua in virtù della quale una guida si trasforma in un «libro poema»; l’inclinazione a restituire atmosfere ed epoche attraverso la letteratura: da Casanova alla Divina Commedia, da Gozzi a Webster, miracolosamente prossimo alla «saggezza algida e scettica» del Cinquecento. -
La lotteria
Il racconto da cui è nata la leggenda di Shirley Jackson è stato molte cose. Il testo più letto nella lunga e gloriosa storia del «New Yorker», ad esempio, e la storia che ha inaugurato una stagione nuova del gotico americano. Ora, grazie alla matita di Miles Hyman, La lotteria si trasforma in qualcosa di ancora diverso: una straordinaria partitura visiva, dove il disegno e la precisione rivelano un volto inedito del terrore.rnIl racconto di Shirley Jackson intitolato ""La lotteria"""" ricorda da vicino, per la fama che lo circonda, la famigerata lettura radiofonica della Guerra dei Mondi di Orson Welles. Fama non immeritata, giacché la pubblicazione sul """"New Yorker"""" nel 1949, scatenò un pandemonio. Molti lo presero alla lettera, reagendo all'istante e poi per lungo tempo con missive indignate o atterrite alla redazione. Certe cose non potevano, non dovevano succedere. Eppure la storia si presenta in tutta innocenza quale pura e semplice descrizione della lotteria che si svolge nell'atmosfera pastorale, quasi idilliaca, di un villaggio del New England in un luminoso mattino di giugno, come ogni anno da tempo immemore. Ma giunto al termine di questo racconto, come degli altri che compongono l'intensa silloge qui proposta, il lettore scoprirà da sé, in un crescendo di """"brividi sommessi e progressivi"""" - come diceva Dorothy Parker che cosa li rende dei classici del terrore. Secondo un altro illustre ammiratore della Jackson, oltre che maestro del genere, Stephen King, lo sono perché """"finiscono con una svolta che porta dritto in un vicolo buio""""."" -
Lazarillo de Tormes
Peripezie che danno vita a un racconto ameno, pieno di grazia, «a una meraviglia di humour e di umanità, a un torrente d’ingegno e di ironia benevola non meno che implacabile» (F. Rico): e che ci invitano ancor oggi ad abbandonarci al puro piacere della lettura.rnSono passati quasi cinque secoli da quando è apparso questo inusitato, sconcertante romanzo, eppure lo stupore che proviamo nel leggerlo è lo stesso di allora. L’identità del suo autore resta avvolta nel mistero, ma una cosa è certa: nessuno prima di lui aveva mai osato tanto. Nessuno aveva avuto l’audacia di demolire tutti i modelli tradizionali e di trasformare il figlio di un mugnaio, Lázaro de Tormes, e la sua miseranda realtà quotidiana in materia di romanzo. Ed è Lázaro, per di più, a raccontarci in prima persona, con esplosiva verve, le indiavolate peripezie che ha passato prima di conquistare un posto nella pubblica amministrazione e l’agognato benessere. Rimasto orfano di padre, apprendiamo, è entrato al servizio di un astuto cieco, tanto abile nello spillare quattrini come guaritore quanto avaro, meschino e manesco. È a questa dura scuola che ha imparato a padroneggiare il gergo e i trucchi della malavita, e a non lasciarsi sopraffare, benché sempre più smunto e sfinito, dai padroni che si sarebbero succeduti: fra i quali spiccano, indimenticabili, un chierico che pare concentrare in sé «tutta la pitoccheria del mondo», un hidalgo che maschera dietro un’aria pomposa e soddisfatta la più nera miseria, e un impudente, ingegnosissimo spacciatore di indulgenze. -
L' insegnamento del Buddha
«Un testo classico, un viaggio appassionante nella spiritualità di un credo antico che ha tanti seguaci anche qui in Occidente» – Robinson rnWalpola Rahula, il primo monaco buddhista a divenire titolare di una cattedra universitaria in Occidente, ha offerto con questo libro un’introduzione al buddhismo che, a sessant’anni dalla sua pubblicazione, conserva intatte la sua freschezza e attualità e rimane imprescindibile per chiunque voglia accostarsi a questa tradizione millenaria. Con un linguaggio semplice e accessibile e un’esposizione chiara e diretta, corroborata da un costante rinvio alle parole del Buddha, Rahula tocca tutti i luoghi classici della dottrina e dell’etica buddhista, dalle Quattro nobili verità all’Ottuplice sentiero, dalla nozione del non-sé alle diverse forme di meditazione.rnRahula si propone inoltre di adattare, senza tradirlo, l'insegnamento del Buddha alle esigenze della vita moderna e laica, evidenziandone l'utilità e l'eminente pragmatismo e rispondendo ai quesiti che chiunque si interessi al buddismo è destinato a porsi: il Sentiero di mezzo è una religione o una filosofia? Che cosa significa «vivere nel momento presente»? Che cos’è il nirvaṇa, e chi lo consegue se non esiste un «io»? E ancora: il buddhismo è un ideale irraggiungibile o, al contrario, è praticabile anche nel mondo di oggi? -
Empedocle
Come testimoniano i due studi qui riuniti, per Giorgio Colli la ricerca filologica sui testi del pensiero greco è fin dall’inizio – in sintonia con la lezione di Nietzsche – inseparabile dalla riflessione teoretica. E centrale, nel suo percorso speculativo, si rivela subito Empedocle, sul quale Colli si concentra già nella tesi di laurea, e di frequente negli scritti successivi. All’interno di una cornice costituita dal complesso rapporto fra sostanza e divenire, fra unità e molteplicità – nodo metafisico essenziale per comprendere la grecità e il pensiero stesso –, Colli mostra come per Empedocle non vi siano due realtà, una trascendente rispetto all’altra, ma noumeno e fenomeno avvinti, e come la radice metafisica, l’interiorità di ogni realtà individuale, sia costituita dal suo impulso vitale a congiungersi con il tutto e a ritrovarsi in esso. Empedocle è dunque un mistico che vive e considera come inseparabili la dimensione mortale e quella immortale, aspetti polari di una medesima natura la cui trascendenza è irriducibile a una spiegazione razionale. -
Il grande sonno
È sempre l’ultimo incarico, per Philip Marlowe. Ma quello che gli abbiamo affidato stavolta, forse, è il più delicato. Sì, perché deve prendere tutto il décor e tutti i ferri del suo mestiere – le palme e il vento caldo di Los Angeles, la penombra minacciosa di interni sfarzosi e lo sfarfallio dell’acqua nelle piscine, il crepitio delle pistole e quello ancora più letale dei lamé –, aggiungerci il suo fuori campo in confondibile, e rimetterli al posto delle storie spesso ovvie raccontate da migliaia di suoi epigoni, in quell’universo narrativo opaco cui è stato attribuito d’ufficio un nome che non gli apparteneva: il noir. Sì, stavolta Marlowe deve riportare le lancette all’anno in cui tutto è cominciato, il 1939, e al luogo da cui tutto il resto ha tratto origine: questo romanzo. E per fortuna tutto fa pensare che ci riuscirà – o che fallirà magnificamente, come solo lui avrebbe potuto. -
Nulla di ordinario. Su Wislawa Szymborska
«Inusuale. divertente, audace» – Il Venerdìrn«Tutta questa attenzione mi soffoca. C’è chi vuole che tenga a battesimo questa o quell’iniziativa, chi mi vuol dare un titolo onorifico, rispondo a tutti di no – voglio essere una persona normale, non una “personalità”.» - Wisława Szymborskarn«Wisława Szymborska riteneva che non si dovesse telefonare a nessuno prima delle dieci del mattino. A meno che non fosse successo qualcosa di brutto. Perciò quando il 22 novembre 2011 mi telefonò alle nove, capii subito che il motivo era serio.»rnIl 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Svezia comunica a Wisława Szymborska che le è stato assegnato il premio Nobel. Da quel momento, lei così schiva, è costantemente sollecitata: arrivano lettere, telegrammi, manoscritti, richieste e proposte spesso del tutto incongrue. Il telefono squilla anche di notte. Si impone il supporto di un segretario. Quando Michał Rusinek, neolaureato ventiquattrenne, si presenta in casa sua, la trova sgomenta. «Allora» racconta «chiesi cortesemente un paio di forbici e tagliai il cavo. Il telefono smise di squillare. La Szymborska esclamò: “Geniale!”. E fu così che venni assunto». Le resterà accanto per più di quindici anni. In questo libro – basato su ricordi di prima mano – Rusinek getta un fascio di luce su aspetti della grande poetessa rimasti finora in ombra: le sue a volte stravaganti passioni (per i limerick e per il Kentucky Fried Chicken, per Vermeer e per gli oggetti kitsch, per Woody Allen e per Il Circolo Pickwick – e soprattutto per le sigarette); il suo bisogno di solitudine; il modo in cui nascevano le sue poesie («Sosteneva che l’utensile più importante nella casa di un poeta fosse il cestino della cartastraccia») e quello in cui creava i suoi collage; i suoi (complessi) rapporti con l’altro grande premio Nobel polacco, Czesław Miłosz; i rituali della scrittura e quelli che precedevano qualunque spostamento. Ma inanella anche decine di aneddoti esilaranti, di battute fulminanti e di osservazioni acuminate, in cui ritroviamo l’esprit settecentesco, la sottile ironia e la capacità di stupirsi di una delle poetesse più fervidamente amate dai lettori di tutto il mondo. -
La cognizione del dolore
«Forse per la prima e ultima volta nella sua vita, Gadda tenta di scendere alle origini del proprio male. Non si perdona nulla: non si illude, non si compatisce, non ostenta giustificazioni né colpe immaginarie: contempla con una triste rassegnazione lo spettacolo delle proprie collere e la vanità delle cause cui sembra appassionarsi. Non arretra davanti a nessun particolare, per quanto penoso possa sembrargli; e non è vittima del proprio odio verso di sé. Così non sappiamo se ammirare il coraggio con il quale ha condotto sino in fondo l’analisi: o soffrire, insieme a lui, per la terribile piaga che nemmeno la felicità della forma può risanare». - Pietro CitatirnA Lukones, in una villa isolata, una madre e un figlio si fronteggiano. Lui, don Gonzalo, che le dicerie vogliono iracondo, vorace, crudele e avarissimo, è divorato da un male oscuro, quello che «si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita». Lei, la Signora, è ridotta da una desolata vecchiezza e dal lutto per la morte dell'altro figlio (il «suo sangue più bello!») a una spettrale sopravvivenza. Li unisce un amore sconfinato, li separa un viluppo di gelosia, senso di colpa, rancore, dolore - preludio al più atroce degli epiloghi. Intorno a loro una casa dissennata, feticcio narcissico ed epicentro di ogni nevrosi, estremo rifugio e tomba, e un'immaginaria terra sudamericana identica alla nostra Brianza, vessata dai Nistitúos provinciales de vigilancia para la noche ? che a tutti vorrebbero imporre la loro violenta protezione ?, assediata da robinie e banzavóis, disseminata di strampalate ville, popolata di «calibani gutturaloidi» che come miserabili Proci dilapidano le attenzioni della Signora. E che Gonzalo vorrebbe cancellare, insieme al barcollante feudo e a tutte le «figurazioni non valide». Perché il «male invisibile» da cui è affetto lo condanna a distinguerle e negarle, quelle «parvenze»: a respingere la «cara normalità», la turpe contingenza del mondo. Anche a prezzo di negare se stesso, anche a prezzo della più dura cognizione, quella che consegna alla solitudine e alla «rapina del dolore».rnIn copertina: illustrazione di Carlo Farneti per Bien loin d’ici di Charles Baudelaire (Les Fleurs du mal, Gibert Jeune-Librairie d’Amateurs, Paris, 1935). -
Keyla la rossa
A Keyla la Rossa nessuno resiste: né Yarme - un seducente avanzo di galera -, né il giovane e fervido Bunem - che pure era destinato a diventare rabbino come suo padre -, né l'ambiguo Max. Se questo magnifico libro è rimasto praticamente inedito fino a oggi, è forse perché Singer esitava a mettere sotto gli occhi dei lettori goy il «lato oscuro» di quella via Krochmalna da lui resa un luogo letterariamente mitico. In Keyla la Rossa si parla infatti in modo esplicito di due argomenti tabù: la tratta, a opera di malavitosi ebrei, di ragazze giovanissime, che dagli shtetl dell'Europa orientale venivano mandate a prostituirsi in Sudamerica, e l'ignominia di un ebreo che va a letto sia con donne che con uomini. Alle turbinose vicende dei quattro protagonisti (e dei numerosi, pittoreschi comprimari) fa da sfondo, all'inizio, la vita brulicante, ardente, odorante e maleodorante del ghetto in cui era confinata, in condizioni di estrema miseria, la comunità ebraica di Varsavia, e poi quella, non meno miserabile e caotica, delle strade di New York in cui si ammassavano gli emigrati nei primi decenni del secolo scorso: affreschi possenti, che non a caso molti hanno accostato a quelli ottocenteschi di Dickens e Dostoevskij. -
Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica
Durante la stretta collaborazione che condusse alla stesura del «Mulino di Amleto», Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend raccontarono in varie conferenze le scoperte sensazionali che andavano via via facendo. Sepolti in sedi editoriali difficilmente accessibili, i testi di alcuni di quegli interventi sono ora qui raccolti, e consentono al lettore di gettare uno sguardo nell'incomparabile fucina di idee da cui uscirà la loro opera capitale: «l'importanza unica» di Sirio – la più luminosa delle stelle fisse, che per più di 3000 anni sembrò non essere affetta dalla Precessione degli Equinozi – nelle antiche civiltà di tutto il mondo, da Babilonia alla Grecia, dal Medio Oriente iranico all'India, dalla Cina alla Polinesia; il «sistema di misure normate» posto a fondamento della cultura superiore arcaica, dove lunghezza, capacità e peso, strettamente collegati, sono derivati dalle uniche misure «assolute» esistenti in natura: lo scorrere del tempo e gli intervalli armonici; infine, il «mutare delle mode in storiografia», a partire dal caso esemplare del soggiorno di Eudosso in Egitto. In un percorso dalle mille ramificazioni, queste pagine ci offrono una porta d'accesso a quel pensiero arcaico in cui il rigore della Scienza, fondato su numerus, pondus et mensura, parlava ancora il linguaggio tecnico quanto immaginifico del Mito – e contribuiscono a farci rivalutare « quei nostri remotissimi antenati che crearono proprio le civiltà superiori». -
Il riccio nella nebbia. Ediz. a colori
Dal capolavoro di Yuri Norstein, considerato da molti il più bel film d’animazione di sempre, una fiaba di straordinaria bellezza e magia, impossibile da dimenticare.rnrnCome ogni sera Riccio, col suo barattolo di marmellata, attraversa il bosco per andare da Orso a bere una tazza di tè e contare le stelle. Ma, pedinato da una civetta ululante e un tantino suonata, finisce per perdersi nella nebbia – un sogno di ombre, acque e creature misteriose. Non era in fondo quello che voleva? Dal capolavoro di Yuri Norstein, considerato da molti il più bel film d’animazione di sempre, una fiaba di straordinaria bellezza e magia, impossibile da dimenticare. -
Sepolcri di cowboy
Dopo la morte di Bolaño, a soli cinquant’anni, e mentre il suo nome diventava leggenda, sono stati trovati e pubblicati parecchi inediti, fra i quali i tre abbozzi di romanzi riuniti in questo volume. rnrnCome ben sanno i numerosi lettori di Bolaño, sin dalle prime righe la sua scrittura ipnotica ci soggioga, trascinandoci in mondi pieni di bagliori corruschi e di inquietante oscurità, di amore e di dolore, di sogni labirintici e di domande senza risposta – i mondi in cui ogni lettore aspira a perdersi quando apre un romanzo. Dopo la morte di Bolaño, a soli cinquant’anni, e mentre il suo nome diventava leggenda, sono stati trovati e pubblicati parecchi inediti, fra i quali i tre abbozzi di romanzi riuniti in questo volume. Ancora una volta, la malìa funziona, e le tre narrazioni – con il riecheggiare di temi ascoltati in altre storie, il riapparire di personaggi che abbiamo incontrato altrove – ci immettono di prepotenza in quel flusso ininterrotto che costituisce l’universo magmatico di Bolaño. Sulle prime due incombe un evento cruciale – il golpe militare con cui l’11 settembre del 1973 venne abbattuto il governo di Salvador Allende –, e ritroviamo dettagli della biografia dell’autore: l’adolescenza messicana, con la scoperta della letteratura e dei film pornografici; il ricordo di una ragazza dagli occhi azzurri che diventerà una desaparecida; i giorni trascorsi dopo l’arresto in una palestra sotto la sorveglianza della polizia. L’ultima, forse la più sorprendente, tutta incentrata su una delirante conversazione telefonica, ci farà scoprire nientemeno che il Gruppo Surrealista Clandestino, il quale sopravvivrebbe da tempo immemorabile nelle fogne di Parigi... -
Il testamento Donadieu
I Donadieu sono un possente clan della Rochelle. Vivono trincerati tra i ninnoli della loro vasta magione e fra i vani oscuri dei loro uffici. E, quando vanno a messa la domenica, formano «una processione dove l'unico assente era il buon Dio». A osservarli, i loro movimenti apparivano «predisposti in modo così rigido che avrebbero potuto scandire la vita della Rochelle con la stessa precisione delle lancette del grande orologio della Torre». Ma un giorno il capotribù, Oscar l'Armatore, scompare. Da allora ha inizio questa cronaca grandiosa e minuziosa, storia di una disgregazione che investe prima La Rochelle per diramarsi poi a Parigi, passando dal torpido ritmo di una città della profonda provincia battuta dal mare all'effervescenza avvelenata della metropoli. Con la stessa sicurezza con cui si manteneva, «l'ordine Donadieu» crolla. E trascina nel crollo non soltanto il clan, ma colui che era stato il freddo agente della rovina: l'arrivista Philippe, il cuneo che si era insinuato fra le giunture del clan. Simenon pubblicò questo romanzo nel 1937, quando i suoi libri incontravano già un immenso successo. Era quello il periodo in cui, come scrisse André Gide, «scoprire Simenon era un piacere». Con «Il testamento Donadieu», Simenon provò allora a lanciarsi nel romanzo balzachiano, di vasto respiro, senza però aggiungere alla sua prosa «un solo grammo di grasso letterario» (come Alfred Polgar scrisse una volta per Hemingway). E il libro rimane una delle più articolate e avvincenti dimostrazioni dell'arte di Simenon. -
Storia universale dell'infamia
Simile a un enciclopedista cinese, Borges volle accostare una sequenza di destini tenebrosi come altrettanti «esercizi di prosa narrativa». Il tono è quello, impassibile, di chi intende «raccontare con lo stesso scrupolo le esistenze degli uomini, siano stati divini, mediocri o criminali», e ritrovarle tutte in una pura «superficie di immagini». Ma chi cercasse in questi ritratti dati certi e attendibili si ingannerebbe. Ispiratore occulto è qui Marcel Schwob, che nelle sue ""Vite immaginarie"""" inventava le biografie di uomini «che erano realmente esistiti ma di cui non si sapeva pressoché nulla». Procedimento che in Borges si inverte: «leggevo la vita di un personaggio conosciuto e la deformavo e falsificavo deliberatamente secondo la mia fantasia». Con la sua usuale sprezzatura, Borges definì una volta queste storie «l'irresponsabile gioco di un timido». Di fatto erano il primo gioiello di una nuova specie di letteratura."" -
Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940
L'amicizia fra Benjamin e Scholem spicca, nel Novecento, come una tra le più affascinanti e vitali. E quando nel 1980 Scholem pubblica questo carteggio, che copre gli ultimi otto anni della vita di Benjamin, vuole rendere giustizia a un rapporto complesso e non privo di contrasti, ma improntato a una profonda fedeltà. Grande studioso della Qabbalah e della mistica ebraica, Scholem è, nel 1932, già da tempo in Palestina e ormai a un passo dalla cattedra; la vita di Benjamin, cabbalista in incognito e profondo innovatore del pensiero, attraversa invece la sua fase più tormentata: ospite di volta in volta a Ibiza, Parigi, Sanremo e in Danimarca, è costantemente alla ricerca di una base di sussistenza. Tra i due, fortemente segnati dalla formazione nella Berlino di inizio secolo e subito attratti dalle ricerche l'uno dell'altro, si sviluppa un confronto incessante che investe l'attualità politica, i libri letti, le comuni conoscenze (da Buber a Bloch, da Brecht ai francofortesi), e che trova il suo fulcro nei densissimi scambi a proposito di Kafka. Un dialogo a distanza – se si esclude il breve incontro parigino dell'inverno del 1938 – e non di rado drammatico, intessuto com'è anche di malintesi, puntute allusioni, eloquenti silenzi, ma che resta una prova convincente delle parole con cui Benjamin definì il suo rapporto con Scholem: «fra Gerhard e me le cose stanno così: ci siamo persuasi a vicenda». -
Il signor Cardinaud
Con la consueta acutezza psicologica, e una sorta di ammirata partecipazione, Simenon ci racconta di un amore eroico, capace di non indietreggiare di fronte al tradimento e alla vergogna.rnrnrn«Lui non aveva ancora quindici anni e già l’amava. Non come si ama una donna ma come si ama un essere inaccessibile. Come, al tempo della prima comunione, aveva amato la Madonna». Alla fine Hubert Cardinaud è riuscito a sposarla, quella Marthe «di cui tutti dicevano che si dava delle arie». Così com’è riuscito, lui, il figlio del cestaio, a diventare un distinto impiegato: uno che la domenica, all’uscita della messa, scambia saluti compunti e soddisfatti con i conoscenti e poi, dopo essersi fermato in pasticceria a comprare un dolce, torna a casa dove la moglie sta cuocendo l’arrosto con le patate. Una domenica, però, trova l’arrosto bruciato e la casa vuota – e gli crolla il mondo addosso. Non gli ci vorrà molto per scoprire che Marthe se n’è andata con un poco di buono, e che tutti in città lo sanno, e lo compatiscono, e pensano che sia un uomo «finito, annientato». E invece no. Hubert decide di ritrovare Marthe, a ogni costo, di bere «il calice fino alla feccia». Simile a «una formica ostinata che segue ostinatamente la sua strada, il suo destino, e che, ogni volta che il carico le sfugge, lo afferra di nuovo, pur essendo quel carico più grosso di lei», andrà a cercare Marthe, perché il suo posto è lì, «accanto a lui e ai bambini», e perché confida «nel trionfo del bene sul male, nella supremazia dell’ordine sul disordine» – «nell’inevitabile, fatale armonia». -
1888: Pasenow o il romanticismo. I sonnambuli. Vol. 1
«I sonnambuli, ancorché composto da tre vicende distinte e con pochissimi punti in comune, è a ogni effetto un solo grande romanzo, e proprio lì sta la seconda e decisiva innovazione recata da Broch (...). L'unità romanzesca non è garantita dalla vicenda né dai personaggi né dal tempo dell'azione, e nemmeno dallo stile, bensì dalla dimensione tematica e simbolica. Una lezione senza la quale non avremmo oggi capolavori» - Vanni Santoni, la Letturarn«Inserire epoche storiche tanto diverse in una sola composizione», ha scritto Milan Kundera, è «una delle nuove possibilità, un tempo inconcepibili, che si sono aperte all’arte del romanzo del XX secolo non appena ha saputo superare i limiti della fascinazione per le psicologie individuali e dedicarsi alla problematica esistenziale nell’accezione più ampia, generale, sovraindividuale della parola»; per poi proseguire: «...faccio riferimento ai Sonnambuli, dove Hermann Broch, per mostrarci l’esistenza europea travolta dal torrente della “degradazione dei valori”, si sofferma su tre distinte epoche storiche: i tre gradini che l’Europa scendeva verso il crollo finale della sua cultura e della sua ragion d’essere». Un torrente che parte, in questo primo pannello della trilogia romanzesca di Broch, dal tardo Ottocento, con lo smarrito Joachim von Pasenow, giovane Junker prussiano, incerto se trasgredire i doveri di famiglia e vivere alla giornata con la piccola Ruzena, entraîneuse incontrata allo Jaegerkasino, a Berlino, oppure seguire la via dell’«onore» e della tradizione, e chiedere in sposa l’avvenente Elisabeth, figlia di un proprietario terriero.rnMa è soprattutto nella forma letteraria, aggiunge ancora Kundera, che Broch ha osato l’innovazione più audace, facendo entrare nel romanzo il pensiero: una riflessione che si rivela «tenacemente autonoma rispetto a ogni sistema di idee precostituite; non giudica; non proclama verità; si interroga, si stupisce, sonda; assume le forme più diverse: metaforica, ironica, ipotetica, iperbolica, aforistica, divertente, provocatoria, estrosa; e soprattutto: non abbandona mai il cerchio magico della vita dei personaggi; è la vita dei personaggi ad alimentarla». -
Concupiscenza libraria
Lettore accanito e onnivoro, Manganelli comincia assai presto a scrivere di libri, nel 1946, e nel giro di qualche anno la recensione si trasforma nelle sue mani in un vero e proprio genere letterario che esige uno scrittore, capace non tanto di giudizio – compito «da professore o da irto pedagogo» – quanto di un «gesto critico, esatto, lucido, veloce e non precipitoso, felicemente prensile». rnrnI presupposti di tale nuovo genere li ritroveremo tutti in questa raccolta, dove Manganelli rivela una prodigiosa capacità di aprire i suoi pezzi con un ‘presentimento di racconto’ («Se sono in preda ad un rissoso malumore, tre pagine di Singer mi “stigrano”, come si dice in certi dialetti emiliani»); di cogliere le peculiarità di un autore come si infilza una farfalla in una bacheca (L’Iguana è un libro che «sembra non avere autore, ma solo essere un perfetto “apporto”, come dicono gli spiritisti»); di dare sfogo a una «concupiscenza libraria» che lo trascina da Omero a Chaucer, all’amato Seicento, a Vincenzo Monti, Keats, Ivy Compton-Burnett sino a Oliver Sacks e Anna Maria Ortese; di brandire irresistibilmente ironia e sarcasmo («Stretto nella teca dei suoi calzoni accanitamente abbottonati, il ritroso Cassola ha della letteratura un’idea che fa apparire “La famiglia cristiana” l’organo dell’Ente per lo Scambio delle Mogli»); di officiare fastose cerimonie stilistiche e verbali; ma soprattutto di farci intravedere, dietro lo «spazio di indifferenza emotiva» che pone fra sé e ciò che scrive, quella passione della letteratura che «produce matrimoni, fughe a due, notti insonni, poesie, serenate, omicidi, ma in nessun caso cose ragionevoli e sensate». -
I baffi
«Di certi autori capita che non si legga subito la loro primissima produzione. Magari è uscita in sordina, magari il loro è un successo venuto in un secondo tempo. È successo più o meno lo stesso con Emmanuel Carrère. Ma le 150 pagine di I baffi s’impongono a una lettura avida e ininterrotta sin dalla prima pagina.» - Teresa Bellemo RivistaStudio«Ci sono romanzi come puzzle, devi mettere insieme tutte le tessere. Altri, come questo, sono un filo che si tira e sistema ogni cosa» - Gabriele RomagnolirnÈ quasi un capriccio, uno scherzo, quello di tagliarsi i baffi, da parte del protagonista di questo inquietante romanzo. Ma ci sono scherzi (Milan Kundera insegna) che possono avere conseguenze anche molto gravi. Il nostro non più baffuto eroe si troverà infatti proiettato di colpo - lui che voleva solo fare una sorpresa alla moglie - in un universo da incubo: perché tutti quelli che lo conoscono da anni, e la moglie per prima, affermano di non averli mai visti, quei baffi, e che dunque nella sua faccia niente è cambiato. Il mondo comincia allora ad apparirgli «fuor di squadra», e il confine tra la realtà e la sua immaginazione sempre più sfumato. Delle due l'una: o è pazzo, o è vittima di un mostruoso complotto, ordito dalla moglie con la complicità di amici e colleghi, per convincerlo che è pazzo. Non gli resta che fuggire, il più lontano possibile. Ma servirà? O non è altro, la fuga stessa, che il punto di non ritorno? Per nessun lettore sarà facile ripensare a questo libro - in cui ritroviamo le atmosfere visionarie e paranoiche di quel Philip K. Dick sul quale Emmanuel Carrère ha scritto - senza un brivido di turbamento. -
Viaggio nel buio
Annebbiata dall’alcol, tra sordide camere ammobiliate e rutilanti caffè-concerto, Anna vede sfilare «i fantasmi di tutte le belle giornate che sono esistite», mentre dentro di lei si allarga la crepa fra la desolazione del presente e il ricordo del passato.rnrnAnna Morgan ha diciotto anni. Dalla Dominica è approdata in Inghilterra, dove per mantenersi fa la ballerina di fila nei teatri, tutti uguali, di grigie città tutte uguali. E tutti uguali – ipocriti e spietati – sono gli uomini che incontra e che, indifferenti al suo bisogno di calore, la trascinano in un abisso sempre più profondo. Annebbiata dall’alcol, tra sordide camere ammobiliate e rutilanti caffè-concerto, Anna vede sfilare «i fantasmi di tutte le belle giornate che sono esistite», mentre dentro di lei si allarga la crepa fra la desolazione del presente e il ricordo delle palme da cocco che «si piegano tortuose sull’acqua», della «sensazione delle colline – fresca e bollente allo stesso tempo», del paesaggio verde dove non c’è mai «un momento di stasi», dell’unica nota «molto alta, dolce e penetrante» che lancia lo zufolo di montagna. Sino alla lacerazione finale – che però contiene in sé la promessa di un nuovo inizio: «Pensai a come sarebbe stato ricominciare da capo. Come nuova. E alle mattine, e alle giornate di nebbia, quando può succedere qualsiasi cosa. Ricominciare da capo, tutto da capo...». Forse lasciando depositare tutto in un romanzo.